«Noi preferiremmo un maschietto», «Spero che sia una bambina»: nelle risposte alla domanda che spesso i neogenitori si sentono rivolgere – «Vorreste un maschio o una femmina?» – c’è già l’inevitabile influenza delle aspettative degli adulti sulla crescita, al maschile o al femminile, del bambino. A chi pensano i genitori che rispondono: «Ci piacerebbe un maschietto»? Com’è la bambina immaginaria di quelli che sognano una cameretta tutta rosa?
Nel fantasticare sul bambino che verrà ognuno attinge ai propri ricordi ed emozioni, a esperienze e speranze che sono uniche e diverse da quelle di chiunque altro. In questo senso, dire che ogni genitore che pensa a un figlio maschio ha in mente un piccolo atleta tosto e competitivo, o un piccolo appassionato di automobili e di meccanica, sarebbe superficiale e impreciso. È vero, però, che il nostro bambino immaginario ha caratteristiche differenti se lo pensiamo maschio oppure femmina. Sono caratteristiche legate agli atteggiamenti, alle preferenze, alle abilità, all’aspetto fisico e al tipo di personalità. Quel bambino o quella bambina hanno un po’ del maschio o della femmina che siamo noi e un po’ di quello che avremmo voluto essere; un po’ di un fratello, di una sorella, di un papà, di una mamma, di persone che abbiamo amato, stimato, invidiato.
L’incontro tra il nostro immaginario e il bambino reale, con le sue caratteristiche, il suo modo di essere e di comportarsi, produce inevitabilmente risposte e reazioni di cui siamo solo in parte consapevoli: semplificando, possiamo dire che tenderemo ad approvare e a incoraggiare atteggiamenti e comportamenti che sono più vicini all’idea che ci siamo fatti, e a scoraggiare o disapprovare quelli che invece se ne discostano.
Le cose naturalmente sono molto più complesse. L’ipotesi di una partenza “neutra”, in cui al momento della nascita un maschietto e una femminuccia sono del tutto identici dal punto di vista della dotazione genetica e della struttura cerebrale, sembrerebbe smentita da recenti studi, che mostrano l’influenza di alcuni ormoni, in particolare del testosterone, nel determinare differenze nello sviluppo di certe aree cerebrali del feto. Si tratta, secondo le teorie dell’evoluzione, delle aree funzionali ai compiti che i nostri progenitori dovevano assolvere per la sopravvivenza del gruppo, che richiedevano ai maschi maggiori capacità di orientarsi, di far fronte alle aggressioni, di concentrarsi su un obiettivo, e alle femmine l’abilità di mantenere le relazioni, di accudire i più deboli e di svolgere diversi compiti contemporaneamente.
Resta però il fatto, anche questo dimostrato dalle ultime ricerche scientifiche, che il modo in cui il cervello evolve è continuamente influenzato dall’ambiente, dalle relazioni, dalle esperienze. Questa “plasticità”, cioè modificabilità, del cervello è massima nel periodo di crescita dell’individuo: nell’infanzia e nell’adolescenza.
Ma cos’è che influenza lo sviluppo del cervello al punto tale da produrre differenze significative nei comportamenti, nelle preferenze, nelle abilità di bambini e bambine?
Il dibattito sulla prevalenza dei fattori genetici o di quelli ambientali nel determinare tali differenze fra maschi e femmine è sempre stato avvelenato da posizioni ideologiche che vedono nell’importanza data all’influenza dell’ambiente una specie di negazione delle “leggi della natura”. In realtà, dovremmo pensare la crescita di un bambino, o di una bambina, come il risultato di una continua interazione fra i suoi comportamenti “naturali”, il significato che gli adulti attribuiscono a quei comportamenti, con le relative reazioni, e l’effetto che quelle reazioni hanno sul bambino o sulla bambina.
Un adulto osserva un bimbo di pochi mesi intento a giocare con un orsacchiotto. Gli è stato detto che si tratta di un maschietto. A un certo punto un rumore improvviso fa sobbalzare il piccolo, che reagisce piangendo o lasciando cadere il giocattolo. Nella maggior parte dei casi l’adulto tenderà a interpretare quel comportamento come una reazione di rabbia. Se invece il bambino viene presentato come femminuccia, l’adulto vedrà in quella stessa reazione una manifestazione di paura.
È quanto emerge da una ricerca di alcuni anni fa, che voleva mettere in evidenza l’influenza degli stereotipi di genere nel dare significato al comportamento dei bambini.
Ovviamente, a volte, ci possono essere enormi differenze tra gli esperimenti e la realtà quotidiana; tuttavia dobbiamo riconoscere che, osservando il nostro bambino, attribuiamo inevitabilmente le sue azioni a un “modo di essere” complessivo che ha a che fare anche con il genere di appartenenza. Se il suo comportamento è troppo lontano da quello che consideriamo “adatto” a un maschio o a una femmina, può accadere che cerchiamo di correggerlo. Questo intervento di normalizzazione sembra più frequente nei confronti dei maschietti: la scelta di giochi “da bambine”, lo scarso interesse per attività movimentate, la preferenza per un solo “migliore amico” e non per il gruppo sono tutti aspetti guardati spesso con preoccupazione dai genitori e dagli educatori. Marco che chiede alla zia di insegnargli a lavorare all’uncinetto, Alessio che segue ogni movimento della mamma in cucina e vuole continuamente fare qualcosa, Luca che ha abbandonato tutte le attività sportive proposte dai genitori e preferisce i giochi tranquilli con le sorelline e le loro bambole… situazioni simili possono portare genitori, parenti e insegnanti alla fatidica domanda: «Ma è normale che…?».
Lo sguardo degli adulti sul comportamento dei bambini ha effetti più potenti di quanto immaginiamo. Se la preoccupazione dei genitori di Marco, Alessio e Luca può rendere i bimbi insicuri e a loro volta preoccupati – di fare qualcosa di sbagliato, di non piacere ai genitori, di avere qualcosa che non va –, anche l’eccessiva indulgenza nei confronti di una bambina in difficoltà davanti alle istruzioni per montare una costruzione o a un problema di matematica avrà delle ricadute sulla sua capacità di affrontare con successo quel compito. Si chiama “profezia che si autoavvera” o “effetto Pigmalione”.
Clara, 11 anni, ha preso 3 al primo compito di matematica delle medie. In lacrime, ha detto alla professoressa che lei la matematica non riesce proprio a capirla. Al colloquio con l’insegnante i genitori hanno raccontato che fin da piccolissima Clara entrava in crisi di fronte ai numeri, mentre Luigi, il fratello maggiore, è sempre stato “portato” per le materie scientifiche. Non sappiamo se il cervello di Clara e quello di suo fratello siano così diversi da spiegare questa differenza, ma sembrerebbe poco probabile. Quello che può essere accaduto, invece, è che un’iniziale difficoltà di Clara nei compiti che il fratello svolgeva con particolare (e lodata) abilità sia stata accolta come normale – «Si sa che le femmine non sono portate per la matematica» – e trasformata in un involontario atteggiamento di sfiducia nelle capacità della bambina di fronte a quel tipo di attività.
Proviamo a pensare all’effetto di frasi quotidiane come: «Clara, se non ce la fai con i compiti di matematica chiedi a Luigi di darti una mano», «Adesso che vai alle medie sarà più difficile con le materie scientifiche, per fortuna sei brava in quelle artistiche…». Possiamo immaginare che Clara si convincerà sempre di più di “non essere portata” per la matematica, e che questo la renderà meno sicura di sé di fronte a un problema o a un’equazione, e meno motivata ad affrontare le difficoltà.
Quello che ci dicono in più gli studiosi del cervello è che tutto ciò ha delle influenze anche a livello cerebrale: le ricerche mostrano che se una persona – come accade a Clara – è esposta costantemente al messaggio «Compiti come questo sono troppo difficili per te», nel momento in cui deve affrontarli si attivano nel suo cervello due diverse aree, quella legata alla ricerca della soluzione (area del ragionamento logico-matematico), e quella legata alle emozioni di ansia e inadeguatezza («Tanto lo so che non ci riesco»), che “consuma energie” e interferisce sulla qualità della prestazione. A lungo andare, questo finisce per “plasmare” la struttura cerebrale fino a creare un collegamento stabile fra l’esecuzione di certi compiti e l’attivazione di circuiti neuronali legati all’emotività e all’ansia da prestazione: insomma, la convinzione di “non farcela” si traduce in uno stato emotivo di ansia e di impotenza di fronte al compito, che conferma la profezia «Clara avrà sempre difficoltà con la matematica».
Sulla crescita e sullo sviluppo delle capacità e delle competenze di un bambino pesa dunque l’atteggiamento degli adulti, che a sua volta dipende dalle pressioni della società. È interessante notare che, per quanto riguarda i maschi, l’intervento adulto è orientato prevalentemente a incoraggiare comportamenti e scelte – dai giocattoli, all’abbigliamento, alle attività – che coincidono con un immaginario di virilità, e a scoraggiare, o peggio vietare o deridere, quelli che se ne discostano.
Per quanto riguarda le bambine, questa pressione verso una “normalità di genere” è più sfumata: essere definita “un maschiaccio”, per una bimba di oggi, non ha lo stesso significato negativo che ha per un bambino essere tacciato di fare cose “da femminuccia”. E anche nelle generazioni precedenti le bambine che volevano “essere Jo” – la protagonista “maschiaccio” di Piccole donne – erano tutto sommato accettate in famiglia e fuori, seppure con qualche rimpianto per la loro scarsa passione per boccoli e vestitini vezzosi. Per le bambine agisce in modo più pesante il pregiudizio sulle competenze: la convinzione che siano più portate per le materie letterarie, mentre i bambini per la matematica; che le femmine siano intuitive e i maschi razionali; che la meccanica, l’informatica, l’elettronica siano poco adatte alle ragazze. Convinzioni che per molto tempo sono state confermate anche dalle differenze nei risultati scolastici e nelle scelte professionali, e che potremmo considerare “vere” se non riflettessimo sugli effetti del condizionamento ambientale di cui abbiamo parlato.
Anche uno sguardo ad altre società e culture ci conferma che parlare di differenze nella “naturale predisposizione” per alcuni campi del sapere non ha molto senso: ad esempio in diversi Stati del Medio Oriente, come l’Arabia Saudita, la Giordania, l’Oman o il Kuwait, così come in India e in Pakistan, sono le ragazze ad avere i risultati scolastici migliori nelle materie scientifiche. I motivi sono vari: dalla minore libertà che le “obbliga” a restare in casa, con la possibilità di dedicare più tempo allo studio rispetto ai coetanei maschi, alla forte motivazione che le spinge a emergere in tutti i campi per conquistare l’indipendenza. In ogni caso, non hanno un cervello più predisposto all’apprendimento delle scienze: è l’intero contesto socio-culturale che agisce sulle loro prestazioni.
Ciò di cui un bambino ha bisogno, quindi, è un ambiente familiare – almeno quello! – in grado di accogliere e valorizzare il suo modo di diventare ragazzo o ragazza, un ambiente che gli permetta di sviluppare le sue potenzialità in qualsiasi campo si esprimano e che offra pari opportunità a maschi e femmine nella scelta del loro futuro. Frasi come «Se fossi nata maschio…», «Se non fossi stato un maschio…» raccontano il rimpianto per un futuro più vicino alle proprie esigenze, un futuro che è stato impedito dalle pressioni della società. Il compito dei genitori è dunque di limitare quelle pressioni, e di permettere ai figli di seguire le proprie inclinazioni con la maggior libertà possibile.
Il figlio che stiamo accompagnando nella crescita è nato con un determinato sesso. L’impegno dei genitori è di aiutarlo a diventare una persona – un uomo, una donna – equilibrata e completa. Tocca a noi per primi essere equilibrati in questo importantissimo compito. Che cosa significa?
psicologa, psicoterapeuta della famiglia e docente di counselling alla Scuola di specializzazione in Pediatria dell’Università di Torino, ha elaborato il metodo del counselling sistemico narrativo, che utilizza nella formazione dei professionisti e negli interventi per lo sviluppo delle competenze genitoriali. Ha fondato la scuola di comunicazione e counselling CHANGE di Torino.