Lo sapevate che, già alla nascita, quando piange il neonato imita il linguaggio materno? Un gruppo di ricercatori ha studiato con particolari programmi computerizzati il pianto di neonati tedeschi e francesi.
Il pianto dei neonati francesi presentava una curva in crescendo di ampiezza e frequenza, due qualità specifiche del suono della lingua madre, mentre nei neonati tedeschi la curva era in decrescendo, imitando in questo modo le caratteristiche melodiche della lingua di appartenenza. In altre parole, il nostro bimbo ci ascolta molto bene già in utero e cerca di imitare il linguaggio della mamma appena nato con lo strumento vocale che possiede in quel momento, appunto, il pianto.
Sembra una domanda apparentemente inutile. Tutti ne abbiamo fatto esperienza e continueremo a farne. «Quando si nasce si piange perché ci si ritrova in questo palcoscenico di matti» scriveva Shakespeare e non è difficile credergli.
Ma un neonato sarebbe d’accordo con questa affermazione? Il pianto ci accompagna già alla nascita (addirittura il vigore del pianto appena nati è uno dei parametri dell’indice di Apgar, primo esame che si effettua sul bambino), per pudore lo chiamiamo vagito. Ma il nostro bimbo piange per i nostri stessi motivi? Piange per gioia, per tristezza, per la commozione di un ricordo? Perché piange un neonato? Non potrebbe nascere con un bel sorriso? Saremmo più ben disposti verso di lui, oppure no?
Per cercare di fare un po’ di ordine in tutta questa confusione dobbiamo partire dall’inizio, ossia da qualche milione di anni fa. I nostri cuccioli nascono molto immaturi rispetto ai cuccioli delle altre specie di mammiferi. Questo perché la nostra specie paga il prezzo di avere un cervello molto grande rispetto al corpo.
Il cervello è un organo che non possiamo far crescere dentro il grembo materno fino a una maturazione paragonabile a quella di ogni altro cucciolo di mammifero, non riuscirebbe a passare attraverso le ossa della pelvi, che formano un canale molto stretto, il cosiddetto canale del parto. Con l’evoluzione della specie, più o meno da quando abbiamo iniziato a camminare eretti, abbiamo avuto la necessità di rimodellare la nostra pelvi, restringendola, mentre tutti i mammiferi quadrupedi avevano, e hanno tuttora, un bacino con un’apertura molto più ampia.
Nel corso di milioni di anni, siamo arrivati a un compromesso: riuscire a partorire un neonato con la testa più grande possibile, compatibilmente con le ossa del bacino della mamma. Ecco perché il cucciolo d’uomo nasce con una immaturità più spiccata rispetto a tutti gli altri mammiferi. Se dovessimo partorire un bambino con una maturazione paragonabile alle specie animali a noi più vicine, lo scimpanzé ad esempio, la nostra gravidanza dovrebbe durare oltre venti mesi. Impossibile! Quale bambino riuscirebbe a uscire dalla pancia della mamma, non vi pare?
Mentre i cuccioli di mammiferi appena nati hanno già molte competenze, il nostro bebè è molto immaturo e ha un assoluto bisogno di essere accudito, in tutto. La sua immaturità non gli permette nemmeno di comunicare con un linguaggio comprensibile, dobbiamo aspettare almeno un anno perché riesca a dire qualche parola.
Se invece di piangere per ogni sua richiesta si mettesse a sorridere, noi risponderemmo prontamente? Giorno e notte? Certamente no. Io penso che continueremmo a dormire oppure a sbrigare le nostre faccende “tanto il bimbo è tranquillo”. Il nostro neonato, infatti, ha imparato che il miglior modo di comunicare è urlare, o piangere. Scegliete voi la parola più adatta. In questo modo, noi genitori scattiamo sull’attenti e ci poniamo prontamente al suo servizio.
Se non vi bastasse questa motivazione, eccone un’altra: la Tupaia belangeri, un lemure asiatico, allatta ogni 48 ore e se lo può permettere perché il suo latte ha una composizione molto ricca in calorie. Il cucciolo non richiama l’attenzione del genitore perché quest’ultimo è lontano a procacciare il cibo. In questo caso, lo stimolo ad allattare il piccolo lemure arriva dal genitore stesso che avverte da solo, in modo istintuale, la necessità di tornare alla tana.
All’opposto, ci sono mammiferi che allattano frequentemente, come la nostra specie. Il latte della mamma ha una composizione ideale per fare continuamente dei deliziosi spuntini. Qui, lo stimolo per allattare viene dato dal lattante, ogni volta che sente fame. Con il pianto, per esempio.
C’è un altro motivo che rende il pianto del lattante uno stimolo molto efficace. Durante il lungo periodo in cui si è sviluppata la nostra specie, abbiamo sempre abitato all’aperto, nelle savane e nelle foreste. In questo ambiente un lattante che piangesse a lungo poteva attirare animali predatori, un rischio da scongiurare prontamente. Così, i genitori intervenivano subito a consolare e a coccolare il proprio cucciolo.
Tutto questo succede ancora oggi tra le poche popolazioni di cacciatori-raccoglitori rimaste in angoli sperduti dell’Africa o del Sudamerica. Tra i Kung San, anche detti boscimani, i bambini che hanno le coliche sono molto pochi e le crisi di pianto sono brevi. Questo succede perché la mamma si comporta molto premurosamente con il proprio bambino. Lo tiene spesso in braccio o legato a sé con una fascia o una rete anche se il bambino non piange (si veda, a tal proposito, il nostro articolo sul Babywearing). Inoltre è sempre all’aperto, a camminare. Il bambino viene allattato frequentemente, anche ogni quarto d’ora, senza che accusi disturbi digestivi.
In un’altra popolazione, questa volta di allevatori, i Masai, sono stati osservati lattanti con le coliche e i bambini piangono molto. Ma più piangono e più le loro mamme li accudiscono, offrono loro il seno di frequente e sembra che tutte queste cure materne riducano il rischio di malattie e disidratazione, disturbi che in quelle difficili situazioni ambientali risultano essere un grande pericolo per la vita. In altre parole i bambini che piangono tanto, quelli con il carattere più difficile, irritabile, sono quelli che hanno le migliori probabilità di sopravvivenza, perché più accuditi. Mentre i bambini che piangono di meno, che hanno meno coliche, sono quelli a rischio di non farcela perché sono allattati di meno dalle loro madri. Pensate a come è formidabile l’efficacia del pianto nel costruire una relazione di attaccamento.
Anche noi europei siamo stati cacciatori-raccoglitori per centinaia di migliaia di anni. Ed è proprio in questo lungo tempo in cui si è creata la nostra specie – si parla di almeno tre milioni di anni – che noi abbiamo costruito il nostro corpo, la nostra mente e la nostra genetica, adattandoci a un ambiente dove non c’erano orari di lavoro da rispettare, permessi di gravidanza (o allattamento) da discutere con l’ufficio del personale.
Immaginiamo di mettere tutto questo lunghissimo tempo abitato dai nostri progenitori in un anno, tre milioni di anni in 365 giorni. Per 363 giorni abbiamo abitato le savane e le foreste in gruppi di cinquanta persone che si aiutavano l’un l’altro e che abitavano sempre all’aperto, con i bambini piccoli sempre in spalla. Il 29 dicembre è comparsa l’agricoltura, i primi villaggi e la famiglia si costituiva come oggi tradizionalmente la conosciamo. E solo per l’ultima mezz’ora dell’ultimo giorno dell’anno, è arrivata la civiltà industriale con le sue regole ferree!
La nostra specie è vissuta praticamente sempre in condizioni radicalmente differenti da quelle a cui oggi così bruscamente cerchiamo di adattarci. Il bambino, per centinaia di migliaia di anni, ha avuto tutto il tempo per selezionare il miglior modo di sopravvivenza in un mondo naturale dove le cure prossimali (accudire il proprio bimbo tenendolo sempre vicino a sé) e la vita all’aria aperta erano la regola. Il pianto è stato lo strumento di comunicazione che il bambino ha selezionato per la sua sopravvivenza. Se rimaniamo nella metafora, tutto questo è andato bene per tutto l’anno, o quasi. Solo nell’ultima mezz’ora l’ambiente di vita è cambiato improvvisamente e radicalmente. Così il pianto, in questo nuovo ambiente, è diventato un problema, una malattia da curare e non più accettato, come una volta, come un’importante e privilegiata forma di comunicazione del nostro bebè.
C’è un però che al giorno d’oggi non dobbiamo dimenticare. Si tratta di una sindrome molto grave correlata al pianto, la sindrome da scuotimento (in inglese, shaken baby syndrome). Il mio bimbo piange a lungo, io perdo la pazienza, lo prendo con forza tra le mani e inizio a scuoterlo avanti e indietro. Questi bruschi movimenti del capo causano delle microemorragie nel cervello o negli occhi. Gli esiti di questa sindrome sono gravissimi, danni cerebrali irreparabili, riduzione delle capacità visive o, addirittura, la morte. Quindi, attenzione! Se il bimbo piange e io perdo la pazienza o non ce la faccio più, è meglio che mi allontani dal bambino e chieda aiuto.
comasco di nascita, ha studiato a Parma, dove si laurea in Medicina e si specializza in Pediatria, e successivamente in Neonatologia e Patologia neonatale. È autore di oltre 70 pubblicazioni scientifiche italiane e internazionali peer-reviewed, e collabora con Uppa da diversi anni con articoli di divulgazione pediatrica.