Sono pediatra ormai da più di vent’anni. Durante la specializzazione frequentavo giornalmente le corsie, i reparti, gli ambulatori. Cercavo di imparare tutto quello che doveva essere imparato. Quando sono uscito dall’università e ho intrapreso l’attività di pediatra di famiglia ero entusiasta, mi sentivo pronto e sicuro. Avevo avuto esperienza di tante malattie e sapevo bene come cresceva un bambino.
Le coliche erano senza dubbio poco importanti come patologia. Dovevo solo tranquillizzare i genitori, «non preoccupatevi, passano tra qualche settimana, fidatevi!». I rimedi per le coliche del neonato erano semplici, si iniziava prescrivendo la medicina X, quella sicura, che non dà effetti collaterali. Poi, se i genitori si lamentavano ancora per le coliche del bambino, si sostituiva la medicina X con la Y e, se non funzionava nemmeno quella, allora prescrivevo la XYZ. Quella funzionava di sicuro, anche se era meglio non utilizzarla spesso, per via degli effetti collaterali e delle controindicazioni.
Di solito, prescrivevo anche tutti i nuovi prodotti che avevano dimostrato sperimentalmente di funzionare, ma il successo di tutti questi medicamenti era, in verità, abbastanza scarso. Nel frattempo passavano due o tre mesi, il tempo di risoluzione spontanea delle coliche, e forse era per questo, e non per merito dei farmaci, che il bambino aveva smesso di piangere e lamentarsi. E via così, a combattere ogni giorno contro quei sintomi del bambino che mamma e papà mi portavano come su un vassoio. Sintomi che dovevo eliminare. Durante i primi anni di attività, mi sono imbattuto anche in qualche nuova malattia che mai avevo incontrato prima: la malattia da reflusso gastroesofageo. Quanti bambini ammalati! Meno male che c’erano le medicine giuste per combattere anche questa patologia.
Un giorno, mi è capitato tra le mani il libro di un antropologo, uno scienziato che studiava i comportamenti dei bambini e delle loro mamme nelle diverse culture, con particolare riguardo ai popoli più antichi, quelli che noi chiamiamo primitivi. Addirittura, e per me fu una novità, studiava i comportamenti delle mamme-scimmie e dei loro cuccioli e confrontava i comportamenti nelle diverse specie di mammiferi.
Vi dirò un piccolo segreto, quel libro non mi capitò in mano per caso. A quel tempo ero alla ricerca degli assurdi, mostruosi, indecenti motivi per cui alcuni colleghi, molto pochi in verità, si ostinavano a dire che il bambino dovesse essere allattato al seno liberamente, a richiesta, e per un periodo di almeno due anni. Una follia pura. Le cose erano chiare e sicure: allattamento ogni tre ore e mezza – con una pausa più lunga di notte – e interruzione dell’allattamento al seno al compimento del dodicesimo mese. «Su signora, adesso dobbiamo interrompere il seno. Non va bene allattare più a lungo. È una questione di energia e poi, non vorremmo viziarlo, vero? Dai, non scherziamo». Gli orari dell’allattamento si scrivevano in cartella. C’era chi utilizzava anche i prestampati. Accipicchia!
Quante cose sapeva invece quell’antropologo sui bambini e le loro mamme. Non avevo mai imparato nulla del genere fino a quel momento. Ho letto un altro libro di antropologia e poi un altro ancora e così via, recuperavo anche articoli scientifici di cui nessuno mi aveva mai fatto cenno. Perché questa ignoranza? Perché avevo trascurato di studiare questi argomenti durante i miei anni di formazione? Forse ero troppo concentrato sulle malattie gravi che si curavano in corsia e non davo la stessa importanza all’aiuto che il pediatra può dare nel promuovere la crescita di un bambino sano e nel sostenere la famiglia in questo impegno. Adesso sono un po’ cambiato rispetto all’entusiasmo della mia giovinezza professionale. Già alla prima visita, al primo incontro con i genitori, parlo del pianto del bambino e del suo significato.
Se un genitore conosce il significato del pianto, non si troverà impreparato e impaurito ad affrontare questo evento. Quando i genitori mi portano il bambino lamentandosi perché piange, cerco di scrutare dentro questa famiglia. Quali sono gli obiettivi dei genitori? Cosa si aspettano dal bambino? Il bambino ha un carattere difficile? I genitori conoscono questo carattere? La mamma o il papà non sono in grado di sopportare il pianto? Sono stanchi, frustrati o depressi? Quali altri problemi familiari possono esserci? Domande che mi pongo in silenzio, tra me e me. Non si fa un interrogatorio, ma si ascolta quello che il genitore riesce a dire, il suo racconto. I genitori hanno risorse sufficienti per farcela? Il bambino, nonostante le sue coliche, sarà ben accudito o rischierà di essere trattato male o, addirittura, punito con una forte scrollata? Certamente non dico più «non preoccupatevi, se non ce la fate, dobbiamo incontrarci di nuovo», concludendo con «già, dimenticavo, le medicine X, Y e compagnia».
Dipendere, o meglio, sperare in qualcosa che è al di fuori di noi – in questo caso sperare che il farmaco risolva una situazione che, invece, va affrontata attraverso un cambiamento di comportamento e di pensiero – non sempre è di aiuto. Anzi, può creare una dipendenza dall’esterno riducendo le proprie capacità di controllo e di azione su sé stessi. Le medicine, ormai, non le prescrivo quasi più e nemmeno utilizzo o consiglio terapie alternative. Applico rigorosamente le prove scientifiche di efficacia. In questo modo il bambino ingurgita sicuramente meno farmaci, e vede meno medici, ottenendo gli stessi risultati, forse anche migliori.
E pensare che le coliche erano roba facile.
comasco di nascita, ha studiato a Parma, dove si laurea in Medicina e si specializza in Pediatria, e successivamente in Neonatologia e Patologia neonatale. È autore di oltre 70 pubblicazioni scientifiche italiane e internazionali peer-reviewed, e collabora con Uppa da diversi anni con articoli di divulgazione pediatrica.