Le prime esperienze sensoriali di un neonato hanno una funzione importantissima: avviano lo sviluppo di alcune aree del suo cervello che consentiranno in seguito al linguaggio e al pensiero complesso di fare la loro comparsa. Afferrare, manipolare, muoversi sono dunque aspetti fondamentali del processo di crescita fisica e cerebrale del bambino, e ben presto queste funzioni motorie troveranno uno sbocco naturale e spontaneo nel gioco, un’attività centrale anche nello sviluppo cognitivo, emotivo e sociale.
Gioco e apprendimento sono strettamente intrecciati: giocare è utile sia per la maturazione delle funzioni cognitive “di base”, sia per imparare nozioni, concetti e strategie specifiche in modo ludico, senza fatica. Il gioco, infatti, favorisce lo sviluppo di quelle strutture nervose (in particolare la corteccia frontale) che ci consentono di valutare le conseguenze del nostro operato, il rispetto delle regole e gli aspetti etici, ad esempio il senso di colpa, la generosità, la solidarietà e l’amicizia.
Come dimostrato da numerosi studi svolti sui primati, ridurre il gioco in modo forzato ha effetti negativi sullo sviluppo della corteccia frontale, il che si traduce in una diminuzione delle competenze sociali e della comprensione dell’altro. Altri studi indicano inoltre che i giochi di movimento, basati su un’attività aerobica, potenziano attenzione, memoria e apprendimento: ad esempio, dopo 15-20 minuti di attività fisica la capacità di concentrazione dei bambini della scuola primaria migliora notevolmente. Sarebbe quindi auspicabile anticipare l’ora di educazione fisica all’inizio della giornata scolastica, oppure fare brevi pause di attività fisica tra una lezione e l’altra. Più in generale, si è visto che la capacità di concentrazione dei bambini con deficit di attenzione aumenta facendo esercizi basati sul controllo motorio (tutte quelle attività che prevedono di organizzare, muovere e coordinare i movimenti e i muscoli).
Se si segue l’evolvere del gioco nel tempo, ci si rende conto che rispecchia lo sviluppo delle competenze motorie, sensoriali e cognitive. Nei primi due anni di vita, il gioco può senza dubbio aiutare un bambino a imparare a padroneggiare i propri movimenti: il piccolo è soddisfatto nello svolgere semplici attività come afferrare un oggetto, agitare le gambe, sollevarsi (è quello che viene definito “piacere funzionale”), oppure nel sentirsi causa di un dato fenomeno, ad esempio quando fa suonare una campanella o provoca degli spruzzi sbattendo le mani in acqua (il cosiddetto “piacere dell’esser causa”). Rientrano in questa categoria i giochi di movimento (correre, saltare, fare le capriole…), importanti sia per la crescita fisica sia per quella psichica.
Dai 2 anni in poi è importante che i bambini abbiano a disposizione spazi per rincorrersi, saltare e giocare a palla, spazi in cui osare per sentirsi liberi. In particolare, dai 2 ai 6-7 anni, inizia gradualmente la fase del gioco simbolico, che implica lo sviluppo della fantasia e la capacità di formulare ipotesi. In questa tipologia di gioco, il bambino usa oggetti nuovi o situazioni immaginarie, interagendovi come se esistessero veramente. Ad esempio, un bambino di circa 3 anni può usare una matita al posto del pettine, facendo finta di pettinarsi, oppure può fingere di lavarsi le orecchie con dell’acqua immaginaria. Il gioco simbolico consente al piccolo di “proiettare” su altri oggetti gli schemi che fanno parte della sua vita quotidiana, e così, ad esempio, può far camminare, saltare, piangere, mangiare la bambola o l’orsacchiotto.
Il gioco simbolico, però, non ha soltanto una funzione cognitiva (cioè non permette solo di sviluppare conoscenze e abilità) ma anche un risvolto emotivo. Il bambino di età prescolare, infatti, vive spesso piccole delusioni che entrano in contrasto con i suoi desideri o le sue aspettative: può desiderare di piantare un chiodo nel muro come fa il suo papà, ma per quanti sforzi faccia non ci riesce, oppure può desiderare di cucinare un dolce o guidare un trattore; tutte cose che generalmente non gli è concesso fare. Il gioco simbolico, invece, permette di realizzare qualsiasi desiderio e svolge dunque una funzione fondamentale; e proprio per questo può essere considerato una forma di psicoterapia spontanea.
Se l’adulto viene coinvolto nel gioco simbolico, è bene che non interferisca troppo, lasciando che sia il piccolo a “guidare” e a chiamarlo in causa, per consentire lo sviluppo della sua autonomia e della sua individualità.
Il gioco, a differenza della pratica sportiva, ha le sue esigenze, ha bisogno di spazi, di libertà, di regole diverse rispetto a quelle degli adulti. Giocando, i bambini imparano a conoscere le potenzialità del proprio corpo, possono essere aggressivi ma anche fare la lotta, o provocare per vedere come reagisce il loro compagno di giochi. È in questi momenti che i bambini possono “recitare” l’aggressività. Non è difficile capire quando fanno sul serio o per finta, è sufficiente guardare l’espressione sui loro volti: quando si tratta di gioco, generalmente sorridono oppure incitano l’avversario a proseguire.
professore emerito di Psicobiologia presso l’Università Sapienza di Roma, ha lavorato in numerosi istituti di ricerca internazionali. Dal 1976 al 2002 ha diretto l'Istituto di psicobiologia e psicofarmacologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche. È autore di oltre 200 pubblicazioni scientifiche, di saggi professionali, didattici e di divulgazione.