Le prove alle quali l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione, ovvero l’INVALSI, sottopone gli studenti di alcune classi della scuola primaria e secondaria sono entrate ormai nella routine dell’attività scolastica, sebbene abbiano faticato ad affermarsi, tra proteste e assenze collettive. È dall’anno scolastico 2005-2006 che si svolgono sul territorio nazionale e oggi prevedono prove di italiano e matematica nella classe seconda e quinta della scuola primaria, nel terzo anno delle scuole medie e nel secondo e quinto delle superiori. Per l’ultimo anno delle elementari, delle medie e delle superiori è previsto anche di misurarsi con una prova di inglese di lettura e ascolto. Nella scuola primaria i bambini si cimentano ancora con una prova cartacea, mentre alle medie e alle superiori la prova si svolge al computer. Quest’anno il periodo di svolgimento dei test nei vari ordini di scuola sarà tra marzo e maggio e già in molti istituti scolastici fervono i preparativi e serpeggia una variabile dose di stress collegato alla famigerata “misurazione”.
Ma che cosa si propongono di misurare i test INVALSI? Come l’Istituto sottolinea nel proprio sito ufficiale e nelle relative pubblicazioni, le prove sono state concepite come uno strumento standardizzato di valutazione che consente di verificare le competenze in alcune specifiche aree di base dell’istruzione, quali la capacità di comprendere un testo o di adoperare semplici concetti matematici. Prove che valutano competenze simili si svolgono in diversi paesi europei ed extraeuropei. L’INVALSI sottolinea come le prove si possano considerare uno strumento in grado di indicarci dove intervenire per migliorare il sistema scolastico, dal momento che il quadro che emerge dalle indagini internazionali sembrerebbe indicare che i nostri studenti, pur trascorrendo molte ore a scuola, fanno più fatica ad applicare le nozioni apprese. Intervenire su questo aspetto potrebbe rendere la scuola in grado di attenuare le disuguaglianze sociali, il che è uno tra gli scopi più importanti dell’istruzione. Nelle intenzioni del Ministero dell’Istruzione, le prove sono concepite come strumenti che valorizzano le competenze, il “saper fare” invece del nozionismo e come mezzi per misurare la qualità dell’insegnamento e la capacità di ragionare.
Ai test INVALSI si è spesso mossa la critica di riferire dati freddi e decontestualizzati, quindi impossibili da interpretare. Registrare il livello di una prestazione senza metterlo in rapporto al contesto nel quale il bambino e il ragazzo si trovano a vivere, e che ha indubbiamente influenza sul processo di apprendimento, può avere poco valore. A partire dall’anno scolastico 2015-2016 i dati INVALSI possono, perciò, essere rapportati al contesto socioeconomico nel quale l’istituzione scolastica si trova, per misurare quello che è stato chiamato “effetto scuola”. In breve, misurerebbero ciò che la scuola è riuscita a fare per intervenire e potenziare le competenze dei bambini e dei ragazzi. Dall’effetto scuola possono venire utili indicazioni per il miglioramento dell’istruzione.
Ma, nella pratica della vita scolastica, queste lodevoli intenzioni si traducono in risultati concreti? Ne abbiamo parlato con Alex Corlazzoli, maestro, giornalista e autore di interessanti saggi sul ruolo della scuola nella società attuale, che prendono spunto dalla sua esperienza quotidiana di insegnante nella scuola primaria. «Nel corso del tempo – ci ha detto – le prove INVALSI sono certamente migliorate in accuratezza e attendibilità. Per esempio, un importante miglioramento è rappresentato dall’inserimento della lingua inglese all’interno delle competenze valutate, ma molti aspetti rimangono ancora delle criticità».
Perché ancora oggi sono molti gli insegnanti e i genitori ostili alla somministrazione delle prove INVALSI? Alla base c’è forse soprattutto un difetto di comunicazione, che, a dispetto delle intenzioni, fa percepire queste prove come un modo per puntare il dito sul lavoro degli insegnanti oppure come un’occasione per sottovalutare le capacità di bambini e ragazzi, sottoposti a una specie di gara. «In teoria, le intenzioni sarebbero ben diverse, ma gli insegnanti avvertono la pressione dei dirigenti scolastici, che spesso si sentono messi in discussione per via degli esiti che emergono dai test e questo carico di stress si trasmette ai bambini e alle loro famiglie», nota Corlazzoli. «Come ho avuto modo di percepire nella mia esperienza di insegnante, sono soprattutto i bambini più grandicelli, per esempio quelli dell’ultimo anno della scuola primaria, che cominciano a rendersi conto di essere sottoposti a una prova ufficiale e mostrano segni di ansia».
Proprio perché lo scopo del test viene spesso frainteso, accade che si pensi di aggirare il problema degli esiti deludenti spingendo gli insegnanti a “preparare” i bambini a svolgere le prove INVALSI. «Ci sono scuole nelle quali si ferma la programmazione per dedicarsi allo svolgimento di test simili a quelli INVALSI, danneggiando di fatto gli alunni. In altre si propone agli studenti l’acquisto di libri di testo appositi, che gli editori scolastici hanno immesso in abbondanza sul mercato», nota Corlazzoli. Se le conseguenze possono realmente essere un miglioramento della performance in questi specifici test, l’obiettivo di ripensare la didattica per venire incontro alle esigenze degli studenti è aggirato e in questo modo vanificato.
Se, da una parte, un test standardizzato consente una misurazione per certi versi più attendibile, dall’altra bisogna tenere conto di alcuni aspetti di pari importanza che sfuggono alla valutazione di una prova così strutturata. Sottolinea Corlazzoli: «Bisogna, per esempio, considerare il contrasto di fondo esistente tra l’idea di somministrare un test standardizzato e il principio dell’individualizzazione dell’insegnamento, che tiene conto delle caratteristiche uniche e irripetibili di ciascun bambino, e che è alla base delle pedagogia contemporanea. Come si conciliano questi aspetti? Inoltre, che cosa garantisce che gli ambiti presi in esame siano davvero quelli più importanti per lo sviluppo delle competenze di bambini e ragazzi?». Le prove INVALSI, per esempio, sorvolano completamente sulle competenze creative e artistiche, oppure su quelle digitali. Si tratta di abilità che non sembrano certamente secondarie rispetto a quelle valutate. «A dispetto dei proclami – sottolinea l’esperto –, molte delle domande appaiono ancora aride e schematiche e non sembra esserci abbastanza spazio per la capacità di rielaborazione critica. Destano molta perplessità anche le prove di lettura “cronometrata”, che possono stressare i bambini e trasmettere l’idea distorta che la scuola non debba rispettare i tempi di apprendimento di ciascuno. Questi test non sono, infine, in grado di dare conto del processo di sviluppo del singolo». Quest’ultimo è un dato che, se da una parte esula dagli scopi delle rilevazioni, rimane comunque molto importante proprio per avere un’idea di quell’”effetto scuola” di cui si parlava.
Il problema della mancanza di un’efficace comunicazione di base sugli scopi del test ha alcune conseguenze paradossali. «Capita, per esempio, che gli insegnanti si soffermino solo sui risultati della propria classe, perdendo la visione complessiva. Oppure accade che i risultati diventino un comodo strumento di marketing per le scuole, da sbandierare nel corso degli open day per attirare iscrizioni», aggiunge Corlazzoli. La sfiducia delle famiglie e delle scuole nei riguardi delle rilevazioni è poi dovuta alla sensazione che i risultati restino esclusivamente sulla carta e non abbiano conseguenze concrete. «Una volta registrata una carenza o evidenziato un problema, sarebbe necessario stabilire un’agenda per porre rimedio alla situazione. Ma al momento ben poco è stato fatto per sostenere le scuole che operano in contesti problematici, traducendo i dati in una serie di azioni che permettano agli istituti scolastici di fare davvero la differenza per i propri alunni».
In breve, sebbene nel tempo alcuni aspetti siano migliorati, le prove sembrano ancora mancare in buona parte gli obiettivi che si propongono. «In generale, l’idea di usare strumenti di valutazione dell’apprendimento e dell’efficacia dell’azione educativa non è da percepirsi come qualcosa di negativo. Al momento, però, i limiti sembrano ancora tanti e proprio per questo i dubbi delle scuole e delle famiglie sono comprensibili», conclude Corlazzoli.
Divulgatrice scientifica, è socia effettiva e presidente della sezione pugliese del CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze) e membro del direttivo dell’associazione professionale di comunicatori della scienza SWIM. Scrive per diverse riviste cartacee e online, tra le quali Le Scienze, Mind, Uppa, Focus Scuola, Wired.it, Wonder Why, Scientificast.