È sorprendente vedere come molti bambini (non tutti), anche assai piccoli, si appassionano al gioco del puzzle. Che cosa ci trovano di bello? Il gioco, infatti, potrebbe essere visto di per se stesso come particolarmente noioso da qualcuno (me compreso, lo confesso…)
Il puzzle è un solitario, che, come ogni solitario, può essere fatto anche da più persone cooperanti fra loro. A volte il giocatore è contento che altri gli diano una mano; a volte, invece, si stizzisce, come se gli altri, con il loro intervento, gli togliessero lo specifico piacere del gioco.
Tutti i solitari sono giochi del mettere in ordine. Le regole prescrivono quale debba essere l’ordine da dare all’insieme che, in partenza, si presenta disordinato. In questo risiede la piacevolezza (per coloro cui piace), e in questo sta la noiosità (per coloro cui non piace).
Qui nasce subito un problema. Tutte le mamme si disperano con i loro bambini sulle questioni di ordine. “Vai a mettere in ordine la tua stanza!” è un classico assolutamente universale. Perché, allora, è bello quel “mettere in ordine”? In che cosa consiste quel piacere?
La prima ipotesi che vien da fare è che possa essere un tentativo di elaborare un trauma (magari proprio il trauma del dover mettere ordine nei propri spazi, nel proprio tempo, nella propria vita), utilizzando il gioco. Ma non sembra proprio. L’elaborazione d’un trauma attraverso il gioco di solito ha tutt’altre caratteristiche: spesso è più vivace, più narrativo, più impulsivo, oppure più guardingo, per così dire; più ansioso. E sovente anche meno metodico. E spesso sembra dare meno piacere.
Per rispondere alla domanda su quale ne sia il piacere, è necessario vedere che cosa è e come funziona un puzzle, e quindi che cosa può rappresentare per la mente di chi vi si appassiona.
Sembra che il puzzle sia stato inventato attorno al 1760 dal cartografo e incisore londinese John Spilsbury. Con un seghetto da traforo ritagliava in pezzettini irregolari dei disegni precedentemente dipinti su sottili tavole di legno. Era l’epoca dell’Illuminismo, quando scienziati e filosofi esaltavano il valore conoscitivo della mente umana liberata da costrizioni e pregiudizi. Basti pensare che i 35 volumi del’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert sono stati pubblicati tra il 1751 e il 1772. Il piacere della conoscenza e più ancora il piacere della scoperta realizzate per azione diretta dei singoli e dei gruppi al di fuori di ogni dogmatismo si diffondeva come non mai, per un fermento diffuso in tutto il mondo occidentale. Osservazione della realtà, costruzione e verifica delle teorie attraverso ulteriori osservazioni erano gli strumenti di base della conoscenza umana, che si poneva come condivisibile fra tutte le persone “illuminate” dalla ragione e libere da preconcetti.
La mente “illuminata” cercava l’ordine delle cose del mondo, per mezzo della scienza; e dava ordine alle cose del mondo, per mezzo dell’arte e della creatività dell’operare umano. Basta pensare, per esempio, alla bellezza dei giardini settecenteschi, concepiti e realizzati come ordine umano imposto alla Natura, altrimenti sentita come caotica e insensata, per darle senso.
L’origine (forse un poco fantasticata) del termine puzzle sarebbe questa: in inglese il gioco del puzzle si chiama jigsaw puzzle, dove jigsaw indica il seghetto da traforo, e puzzle vuol dire rompicapo. Il gioco del puzzle, dunque, è il “rompicapo del seghetto da traforo”. Ci sono puzzle adatti a tutti i gradi di pazienza e a tutte le età, perfino per bambini soltanto di un anno.
Cercare di costruirsi un’immagine del mondo è quello che il bambino fa in ogni istante della propria vita, fin da quando, appena nato, vede gli occhi della mamma che lo guardano, sente il calore e l’odore del corpo che lo accoglie fra le braccia, ode suoni e rumori per lui inusuali, e poi, via via che cresce, compie esperienze vive nelle scoperte e nelle esplorazioni sempre più ampie e differenziate. Le immagini del mondo che va formando nella propria mente sono sempre più complesse e articolate, con dei nessi che danno loro sempre maggiore consistenza e chiarezza.
La conoscenza di sé va sempre di pari passo con la conoscenza del mondo in cui si svolgono le esperienze. Questo processo della simultanea conoscenza di sé e del mondo imprime nel mondo conosciuto l’impronta del soggetto. La percezione di questa impronta è il significato, è il senso che il mondo ha per il soggetto in ogni specifica esperienza.
Per esempio, una bambina guardando la Statua della Vittoria Alata non vide affatto qualche cosa di bellicoso, ma una ballerina che faceva un passo di danza, perché la danza era una cosa preziosa e importante che lei (bambina) aveva dentro la propria mente. La sua percezione del monumento conteneva l’impronta della sua soggettività di amante della danza. Ed è questa sua soggettività messa dentro alla realtà percepita ciò che costituiva, per quella bambina lì in quel momento, il “senso” della realtà osservata e percepita.
Il “senso” che scopriamo nella realtà è sempre qualche cosa che, mentalmente, noi vi abbiamo messo dentro. Costruire l’immagine del puzzle, che a tutta prima è scomposta e disarticolata nei suoi frammenti, e che poi si fa via via sempre più definita e provvista di senso, è una specie di riscoperta e risperimentazione dell’impegno conoscitivo di tutta la vita e del piacere di dominare il reale sia attraverso la conoscenza (strutturare immagini coerenti a partire dal caos) sia attraverso l’azione creativa (agire sugli elementi del caos per dar loro forme che siano sensate per il soggetto).
Alla fine del gioco, quando tutta l’immagine del puzzle è costruita, sovente l’emozione è quella del trionfo. È il trionfo illuminista della mente ordinatrice sulla natura che, al primo impatto, si era presentata come caotica. È, sì, il piacere di aver risolto un problema, ma molto di più è il piacere di aver colto l’efficacia del proprio operare nel conoscere l’armonia fra la strutturazione della conoscenza del mondo e la conoscenza di sé nel mentre ordina e struttura conoscenza del mondo.
Nell’opera di ri-composizione del puzzle il giocatore non si trova davanti soltanto i pezzettini di disegno ammucchiati alla rinfusa, ma ha fin dall’inizio davanti a sé ben chiaro il risultato finale cui deve tendere: il disegno finito da “ricostruire”. Così il compito è molto facilitato.
Qualche bambino può scoprire da solo alcuni trucchetti che gli possono facilitare il compito, quali quello di partire dagli angoli, per i quali i due lato ad angolo retto sono lisci e dritti e non devono combinarsi con nessun altro pezzettino. Poi c’è il trucchetto dei margini, di cui i pezzettini hanno un lato che, confinando con il “di fuori” del disegno, non deve combinarsi con altri pezzettini di disegno.
Impareranno a guardare nel modello da copiare gli stacchi di forma e le macchie di colore, per intuire quali pezzettini possano corrispondere a quel luogo del disegno. Impareranno infine a tener conto della forma del taglio fra un pezzettino e l’altro, i cui margini devono corrispondere esattamente.
Impareranno che non giova creare forzature: se i margini dei pezzettini ritagliati non sono esattamente corrispondenti, forzarli a collegarsi tra loro non può portare a una buona ricostruzione del disegno, anzi: fa sì che ce se ne allontani. Come nella scienza: le forzature allontanano dalla conoscenza, e quindi dalla verità.
Impareranno ad analizzare la realtà nella duplice prospettiva: secondo forma del disegno da ricomporre e secondo forma dell’oggetto da maneggiare. Impareranno che per risolvere i problemi ci vuole tempo. E che bisogna, quindi, saper pazientare, saper permanere nello stato di incertezza di chi ha fiducia di poter riuscire, ma non è ancora riuscito. Impareranno che la conoscenza può non essere immediata: talvolta essa è sì tendenzialmente progressiva, ma secondo dei movimenti irregolari, meno o più rapidi, attraverso tentativi ed errori.
Tutti questi apprendimenti, per così dire “autogestiti”, procurano piacere che contiene il piacere di riuscire a orientarsi nel costruire la propria percezione del mondo, ricevendone alla fine una convalida inequivocabile: “Ho visto giusto! Ho colto i vari differenti elementi della realtà e li ho connessi in modo adeguato a costruire un’immagine appropriata della realtà”. E quindi anche: “Ho percepito me come un essere ben funzionante nel contatto conoscitivo e creativo con la realtà”.
Per dirla in modo rigoroso, possiamo concludere che il piacere di risolvere un puzzle è connesso al piacere dello strutturare la mentalizzazione delle esperienze.
Non è che sempre la percezione del mondo si costruisca un pezzettino per volta. Anzi: essa si pone molto spesso come percezione globale. È l’insieme quello che allora prevale sul dettaglio. Ma quando ci troviamo di fronte a forme ambigue, che potrebbero essere forme di qualche cosa ma anche di qualche cosa di altro, allora uno dei modi possibili per cercare di orientarci è quello di analizzare un pezzettino per volta. Bisogna però sempre ricordare che altrettanto spesso riusciamo meglio se osserviamo, per così dire, più da lontano, cercando di cogliere l’insieme per l’appunto attraverso il trascurare i dettagli.