I bambini sono curiosi per natura: fin da piccoli esplorano l’ambiente che li circonda e fanno continue domande ai genitori. Accompagnarli alla scoperta del mondo è un compito educativo importante, e gli albi illustrati sono uno strumento prezioso: stimolano la fantasia, e permettono di “scavare” senza offrire risposte facili e definitive.
L’associazione Hamelin, che da vent’anni si occupa di promozione della lettura per l’infanzia, ha dedicato al “potenziale filosofico” degli albi l’ultimo numero della sua rivista, Hamelin. Storie figure pedagogia. Qui un estratto da un articolo pubblicato su Hamelin n. 50, Stavo pensando: Albo e filosofia.
«Mamma, secondo te quanto dura per sempre?»: questa è la “la grande domanda” (riprendendo il titolo dell’albo di Wolf Erlbruch) che, da un po’ di tempo a questa parte, mia figlia Eva, 2 anni e mezzo non ancora compiuti, mi rivolge almeno una volta al giorno.
Una domanda che mi ha sorpresa e che, con la mente adulta, ho subito derubricato a un “non ha idea di quello che sta dicendo… questa, poi, chissà dove l’avrà sentita!”. Al che, nell’imbarazzo iniziale, ho cercato di abbozzare una qualche risposta, sperando che ne fosse soddisfatta, per lo meno lì per lì. È chiaro che la domanda, nella sua complessità, non mi ha lasciata indifferente: non solo come madre, ma soprattutto come studiosa.
Perché mi sorprende che una bambina così piccola mi possa fare una domanda che non esiterei a definire filosofica? Perché mi imbarazza il mio goffo tentativo di non darle risposte a caso ma di cercare qualcosa che abbia un senso? E perché mi spaventa non avere una risposta, un “due più due fa quattro”, da poterle offrire con baldanzosa sapienza, dall’alto della mia età saggia e smaliziata?
Ecco, credo che siano anche domande come queste a dover guidare la riflessione di una pedagogia e di una cultura che si occupano di infanzia e che hanno a cuore il diritto dei bambini e delle bambine a esercitare pensiero.
Non mi importa (o mi importa fino a un certo punto) se questo pensiero sia logico, sia astratto, sia razionale prima o dopo i 7 anni (né mi sognerei di addentrarmi in un campo che non mi compete). Ciò di cui sono certa, però, è che dal punto di vista pedagogico (ma anche come madre di Eva), ho una grande responsabilità: non posso ignorarla, questa domanda.
Una piccola vicenda biografica, dunque, intrecciata con la mia professione, mi tiene ancorata al campo dell’educazione al pensiero.
Come il maestro Lorenzoni (ma, prima di lui, tanti altri) ci ha ricordato che «i bambini pensano grande», regalandoci narrazioni di scuola che fanno da eco al Paese sbagliato del grande Mario Lodi, si riconosce qui il fatto che un’educazione al pensiero rappresenta un diritto dell’infanzia da tutelare e da perseguire, non tanto (o non solo) come esperienza sporadica eccezionale, ma a pieno titolo accanto alle didattiche disciplinari e alla valorizzazione di competenze ormai più che riconosciute.
Qui però non mi soffermo tanto sulle pratiche, ma cerco di mantenermi un passo indietro, a livello delle premesse. Ciò che, infatti, credo sia prioritario, prima di qualsiasi scelta legata a un metodo, un percorso, un progetto di pratica filosofica, è il fatto che sia opportuno ritornare a quel senso di imbarazzo che spesso porta l’adulto a ignorare le domande di un bambino.
Riconosciuto, infatti, che i bambini, anche molto piccoli, esercitano (ed esprimono) pensiero (in qualsiasi forma esso sia), c’è da chiedersi se esistano sempre uno spazio, un tempo, una disposizione che siano in grado di accoglierlo.
Della nostra prima infanzia ricordiamo molto poco e questo ci rende “stranieri” (sebbene non del tutto estranei) ai bambini e alle bambine dell’oggi: i loro occhi interroganti, le loro domande “fuori da ogni logica” (logica di chi?), le loro soluzioni che eccedono i binarismi cui siamo abituati, anziché sorprenderci (nel senso pieno della meraviglia) e anziché bloccarci – in rispettoso silenzio – sulla soglia di un “altro” mondo, ci inquietano, ci fanno sentire “scomodi”, ci inducono alla fretta, alla risposta secca o alla non risposta affatto.
“Avere care le domande”, quindi, è un primo passo nella direzione di un riconoscimento della (reale) partecipazione dei bambini alla loro infanzia e al mondo che condividiamo con loro; domande che, certamente, sono più libere da sovrastrutture e condizionamenti rispetto a quelle degli adulti e possono rappresentare un’occasione, per loro stessi, di riappropriarsi del piacere della scoperta e dell’impegno della ricerca.
È molto difficile, infatti, per la società adulta, pur meritevole di aver riconosciuto ai soggetti minorenni delle differenze per cui sono sanciti dei diritti specifici (Convenzione ONU, 1989), passare dalla “carta” alla realtà e riconoscere loro anche una partecipazione attiva.
Il soggetto-bambino, nell’immaginario e nel reale, rimane relegato a una condizione di “mancanza” e “minorità” (in-fans, senza parola), una incompletezza da colmare per divenire, il prima possibile, “l’adulto di domani”.
Una cosa è garantire a un singolo bambino la propria soggettività all’interno della sua quotidianità familiare, scolastica, sociale in genere; altra cosa, invece, ben più complicata, è immaginare, prima, e realizzare, poi, un mondo, un paese, una città che siano effettivamente a “misura di partecipazione infantile”.
Si tratta, per riprendere le parole di Montessori, di dare diritto di pensiero, parola e azione a quel “cittadino dimenticato” che vive, appunto, il tempo dell’infanzia.
Che il bambino sia filosofo o che l’infanzia possa fare filosofia (o, meglio, “filosofare”) non è la domanda prioritaria per l’educazione. La pedagogia deve chiedersi (e, di fatto, alcuni illustri studiosi in Italia lo fanno da tempo nell’ambito della Philosophy for Children) se all’interno dei contesti educativi vi siano le premesse e le attitudini per:
Ma prima ancora di questi interrogativi, a parere di chi scrive, è opportuno riflettere su quale sia la nostra idea di infanzia: quale bambino e bambina abbiamo in mente quando progettiamo, ipotizziamo, disegniamo proposte educative?
Muovendosi nell’alveo dei diritti, infatti, è necessario un passaggio di prospettiva da un’idea di educazione per l’infanzia a un’idea di educazione con l’infanzia.
Bambini e bambine non più destinatari di riflessioni e pratiche adulto-centriche, ma co-costruttori di esperienze di apprendimento e, certamente, di esercizio del pensiero. Un pensiero che, proprio a partire dalla definizione che ne danno gli autori della Philosophy for Children, non è valorizzato solo nella sua dimensione più “riconosciuta” – logica, critica, argomentativa –, ma anche in quelle che rimandano alla creatività, al prendersi cura dell’altro e del mondo, all’esercizio di una cittadinanza globale e solidale.
La pratica filosofica, così come immaginata e realizzata nell’ambito della Philosophy for/with Children, rimanda a un’idea di pensiero complesso, costituito da più livelli, assolutamente non gerarchici, ma in continua connessione tra loro.
E così è complessa l’idea di infanzia che ne deriva: non appiattita su rigidi stadi di apprendimento e relative competenze, ma “fluida”, meritevole di attenta osservazione e di ascolto, in grado di “uscire dalle cornici” di cui facciamo parte e di mostrarci vie alternative ai tragitti cui siamo assuefatti e addomesticati.
Ciò che può apparire come “illogico” e, per questo, minore rispetto a un pensiero rigoroso e sistematico, è in realtà un’altra faccia del pensiero, quello che più si avvicina, di primo acchito, a ciò che facilmente cataloghiamo come le contraddizioni e i nonsense dell’infanzia.
Ma è questa la fantasia (che a noi adulti manca), un luogo in cui «ci piove dentro», direbbe Calvino, un luogo potente e generativo, in grado di prendere in considerazione qualsiasi ipotesi, un luogo di apertura, di salti controintuitivi e di illuminazioni importanti.
Certo, è un luogo per cui esistono meno risposte pronte, più faticoso da abitare, disorientante, spiazzante, con meno appigli a portata di mano o porti prossimi in cui attraccare. Ma non è forse questo il luogo dell’infanzia? O, meglio, non è così che lo percepiamo, noi adulti, del tutto disorientati di fronte a una bambina di 2 anni e mezzo che ci chiede quanto dura per sempre?
L’infanzia ci insegna che non tutti i problemi possono essere affrontati con la logica: quando i fenomeni sono inediti (e così è per un soggetto che è appena arrivato nel mondo), le variabili sono numerose e, spesso, sfuggenti. È in questo incontro con la novità, la meraviglia, lo stupore che risiede il terreno per le domande, per tutte le domande (è in ciò che risiede la “nascita” della filosofia).
Nonostante tutte le difficoltà di riconoscere, concretamente, un pensiero all’infanzia e, soprattutto, un suo diritto di cittadinanza, nonostante la fatica della mente “adulta” di dialogare con dimensioni del pensiero dimenticate, che spesso portano a ignorarne la grande ricchezza, esistono dei luoghi in cui a parlare è la voce del “mondo bambino”.
Un luogo prezioso, ad esempio, è rappresentato dalla letteratura per l’infanzia. Per dirla con Giorgia Grilli, quello della letteratura è il luogo in cui l’infanzia sembra trovare il suo spazio “per eccellenza”, in cui bambine e bambini sono mostrati nei loro tratti di diversità e divergenza, mai pienamente afferrabili dallo sguardo adulto. Nelle pagine dei grandi albi illustrati, l’infanzia vede cose «che gli adulti non vedono, entra in dimensioni che per gli adulti non esistono».
Come in Chiedimi cosa mi piace di Bernard Waber con le illustrazioni di Suzy Lee, in cui i pensieri di una bambina dialogano “ad armi pari” in una altalena di domande e risposte con il padre: un libro che parla i linguaggi plurali dell’infanzia e che, al contempo, non brama di riempire gli spazi, di colmare i vuoti ma, piuttosto, accompagna il lettore a indossare uno sguardo ospitale nei confronti dell’universo- bambino.
O come in Aspetta di Antoinette Portis in cui è la perseveranza di un bambino a educarci lo sguardo, facendoci cogliere nell’ordinario di una quotidianità̀, fatta di corse, passaggi veloci e percorsi sempre uguali, lo straordinario; ricordandoci, ancora una volta, che l’infanzia è un tempo della vita ma anche un tempo di vita, che necessita di rispetto, di cura e di una guida paziente.
O come in Si può svuotare una pozzanghera? di Katrin Stangl in cui le domande dei bambini protagonisti si rincorrono in una girandola di colori, restituendo dell’infanzia, oltre ai pensieri, anche gli odori, le risa, le lacrime e i rumori. È tra queste pagine che mi immagino di poter inserire la domanda di Eva, quella domanda cui, se interpellata con un «Ma, secondo te Eva, quanto dura?», lei oggi risponde «Per sempre per sempre».