Negli anni le organizzazioni internazionali come l’OMS hanno stilato diverse linee guida per promuovere buone pratiche e cure rispettose in materia di parto e puerperio. Eppure queste indicazioni vengono spesso disattese. Per quale motivo? E come comportarsi per essere sicure di avere un’esperienza di parto soddisfacente? Chiara Borgia, pedagogista e direttrice di Uppa magazine, intervista a tale proposito Claudia Ravaldi, medica psichiatra, psicoterapeuta e presidente dell’associazione CiaoLapo, che si occupa in particolare di salute perinatale.
Chiara Borgia: Claudia, grazie di essere qui con noi, ti chiedo per prima cosa se puoi spiegarci brevemente che cosa sono le raccomandazioni e le linee guida e come vengono stabilite.
Claudia Ravaldi: Una cosa che non tutti sanno è che c’è un lungo percorso per arrivare a definire le raccomandazioni e le linee guida. Questo percorso di solito richiede un impegno condiviso che coinvolge per un certo tempo, anche anni, varie persone e il cui obiettivo primario è quello di offrire agli individui coinvolti dalle linee guida in questione il miglior livello di salute possibile e il modo più semplice di raggiungere quel livello di salute, tenendo conto di tante variabili.
Le variabili da considerare sono innanzitutto la base scientifica di ciò che viene proposto, la sua riproducibilità (nel senso che le raccomandazioni devono poter essere seguite alla stessa maniera in tutti i contesti) e il rapporto rischi/benefici di ogni pratica.
Le linee guida di qualità, inoltre, si contraddistinguono per il fatto di venir revisionate in tante maniere. Possono essere revisionate sempre dallo stesso gruppo di esperti, che dopo un tot di tempo rivede tutta la letteratura scientifica sul tema, oppure dal basso, quando la popolazione clinica e le associazioni individuano una criticità e concorrono a proporre una modifica.
Le linee guida, quindi, sono vive. E al loro centro c’è sempre la salute pubblica, del singolo cittadino e quella di chi eroga cure. C’è il tentativo di rendere i servizi sanitari un luogo di eccellenza per la pratica medica. Non sono punti inappellabili di non ritorno, dentro c’è un mondo di grande fermento e attività, e di continua verifica.
CB: Entriamo subito nel tema caldo di questa intervista. Hai parlato di evidenze scientifiche per la redazione delle linee guida. Ci sono molte pratiche che oggi vengono consigliate o prescritte, ma sulla cui utilità non c’è alcuna evidenza, come ad esempio l’adozione di una posizione obbligata durante il parto o del digiuno e il divieto di bere. E poi ci sono procedure mediche, come l’episiotomia, che a volte avvengono in maniera routinaria nonostante siano in contrasto con le linee guida OMS. Perché?
CR: C’è un problema di doppia velocità. Per come funziona il nostro Paese (con la sanità gestita a livello regionale, intanto, e poi anche con l’organizzazione del sistema universitario), siamo un po’ condannati a viaggiare a una velocità che non è quella dei revisori delle linee guida. Ci sono i ricercatori, gli studiosi, la stessa OMS che viaggiano a passo sostenuto, poi ci sono, ad esempio, le università, che viaggiano un po’ più lente, e poi le aziende ospedaliere che hanno velocità diverse: alcune riescono a adeguarsi alle linee guida in qualche anno, altre praticamente mai.
Le linee guide internazionali sulla perinatalità non sono prescrittive, non hanno un valore legale, normativo. Quindi non è automatico che se una cosa viene detta dall’OMS debba diventare operativa in un’azienda ospedaliera nazionale, così come non è obbligatorio che le raccomandazioni di sanità internazionali debbano essere recepite interamente dai singoli Paesi.
C’è poi un’altra questione. Le linee guida, ovviamente, non tengono conto né della singola persona che si rivolge a un servizio né del livello di efficienza ed efficacia di quel servizio. Quindi, se la linea guida è il gold standard, dall’altra parte abbiamo i legislatori che legittimamente dicono: «Purtroppo in Italia i dati sono questi, bisogna adeguarsi ai ritmi nazionali». Il problema è che i nostri ritmi nazionali lasciano un ampio margine di applicazione per procedure che non tengono in considerazione la tutela del benessere psichico, che passa completamente in secondo piano. Le ultime raccomandazioni dell’OMS parlano della necessità di garantire un parto (qualsiasi tipo di parto, vaginale, indotto, cesareo…) soddisfacente per la madre, che rispetti il suo benessere sia fisico sia psichico.
Noi andiamo veloci per tutto quello che riguarda il benessere fisico, mentre per tutto ciò che è legato all’aspetto del benessere psichico siamo praticamente fermi.
CB: Hai fatto riferimento al benessere psichico della madre, ma questo scarso potere di scelta rispetto al proprio parto, queste procedure che avvengono a volte in maniera un po’ confusa e routinaria hanno anche un effetto sul benessere del bambino.
CR: Il benessere della mamma e quello del bambino sono come due vasi comunicanti, non possiamo pensare che il bambino, che vive e si forma nel corpo della madre, abbia un benessere del tutto indipendente, una volta separatosi fisicamente da lei con il parto.
Sappiamo da molti studi che c’è ad esempio una corrispondenza molto netta tra la capacità della donna di sintonizzarsi sui bisogni del bambino, e di avere quindi le risorse e le energie anche fisiche per farlo, e la capacità del bambino di imparare a sintonizzarsi sul caregiver, su colei o colui che gli offre cura. Questo lavoro, che è un lavoro di rispecchiamento dei neuroni, non sempre viene considerato quando, dopo il parto, si fanno delle scelte sul bambino.
A volte, certo, alcune situazioni molto gravi, legate a patologie della mamma o del piccolo, costringono alla loro separazione per un certo tempo. Ma questa separazione potrebbe essere mediata, ad esempio, dalla presenza e dal contatto del padre o dell’altra figura di riferimento, dal mantenimento di qualche tipo di raccordo relazionale, anche utilizzando i device, registrando magari la voce di mamma e bambino.
Insomma, le cose che si potrebbero fare per preservare il miglior livello di salute possibile per tutti sono molto più numerose di quelle che oggi vengono proposte e rese possibili in alcuni dei nostri ospedali.
CB: Hai accennato al tema del padre, o comunque del partner, all’interno del parto, cioè la possibilità per la partoriente di avere con sé una persona di fiducia. Il COVID su questo ha aperto un vaso di Pandora, esasperando una situazione già di per sé complicata. Puoi spiegarci perché la presenza di una persona di fiducia viene considerata un fattore protettivo per la salute di madre e bambino? Come mai questa pratica è ancora troppo spesso non rispettata all’interno delle strutture ospedaliere?
CR: L’idea che da almeno cinquant’anni abbiamo del parto, che resiste fortemente e che ci impedisce di allinearci alle linee guida dell’OMS e di altre agenzie internazionali è che il parto sia un compito da svolgere con il massimo obiettivo della sopravvivenza della mamma e del bambino. Questo di per sé sarebbe lodevole, ma negli ultimi decenni le condizioni antenatali e le procedure di assistenza alla partoriente hanno fatto sì che oggi siamo in grado di far nascere i bambini in sicurezza e tutelando la salute delle mamme. Quindi il problema della sopravvivenza non è più l’unico di cui dobbiamo occuparci, e potremmo dedicarci a tutto l’aspetto che sembra “di contorno”, ma che non lo è: esiste anche una sopravvivenza psichica che ha delle ripercussioni importanti.
Il parto non è un atto meccanico, è un’esperienza che ha bisogno del sostegno non solo della collettività – intesa come fornitura di servizi appropriati, di luoghi appropriati, di tutele appropriate – ma anche della presenza delle persone significative per la donna, che possono variare: ci sono donne che chiedono la presenza della propria ostetrica, o della propria doula, ci sono coppie in cui il padre vuole partecipare al parto, e deve ovviamente sentirsi legittimato a farlo.
Cosa è accaduto col COVID? Come dici tu, si è davvero scoperchiato un vaso di Pandora, perché i primi a essere “fatti fuori”, già a marzo 2020, sono stati i papà. Il primo anno di COVID è stato più o meno sereno per quanto riguarda i rischi per mamma e bambino (è stato poi con le varianti successive, e prima del vaccino, che sono emersi i problemi), quindi l’idea di espellere i papà dalla sala parto mi è sembrato un errore non solo strategico, per tutto quello che abbiamo detto sulla salute.
Mi è sembrato anche un voler ribadire il concetto culturale secondo cui il parto è una questione che riguarda solamente le donne e i maschi devono allontanarsi. Questo, secondo me, tradisce non tanto un problema organizzativo dovuto alla gestione dell’emergenza, ma un problema culturale. E la situazione era resa ancora più grave dal fatto che l’OMS, dieci giorni dopo lo scoppio della pandemia, aveva ribadito che non c’era nessuna ragione sanitaria che facesse venire meno i punti delle cosiddette “cure rispettose”; a livello internazionale ci si è affrettati a sottolineare che la pandemia non giustificava in alcun modo la violenza ostetrica e che occorreva mantenere una posizione condivisa sui diritti fondamentali legati al parto, e tra i diritti fondamentali c’è il compagno di scelta.
CB: Un altro tema al centro di diverse discussioni è quello relativo al parto cesareo o vaginale. In Italia, recentemente c’è stata una diminuzione del ricorso al cesareo, la cui incidenza però è sempre al di sopra di quella consigliata dalle linee guida dell’OMS. Se da un lato abbiamo quindi ancora un problema di ricorso eccessivo a questa procedura, allo stesso tempo molte donne lamentano di trovare resistenze verso il cesareo laddove invece sarebbe importante averne accesso. Perché accade questo e quali sono le conseguenze sulla salute di madre e bambino?
CR: Per questo tema vorrei usare tre parole che si trovano in tutte le linee guida relative all’esperienza di parto: shared decision making, cioè la necessità di produrre decisioni condivise. Condivise tra chi? Tra l’équipe che assiste il parto e la coppia.
Occorre mettere al centro le persone che si rivolgono a noi per accedere a un servizio: dobbiamo garantire loro il miglior livello possibile di informazione per far sì che riescano a capire quale strada prendere, i rischi e i benefici di ogni singolo bivio che si trovano di fronte. La coppia, dopo una serie di colloqui con l’équipe che ha scelto per il suo percorso, deve disporre delle informazioni sufficienti per prendere delle decisioni che si addicano alla propria storia e al corpo della donna che partorirà.
Prendiamo il discorso che facevi tu, Chiara. Siamo un Paese in cui ci sono molti cesarei perché in alcune regioni il cesareo viene fatto a richiesta, ma a partire da qualsiasi richiesta, senza andare a capire la motivazione che c’è sotto. E, al contrario, abbiamo donne che hanno un disperato bisogno di non procedere al parto per via vaginale e non vengono ascoltate. Ci sono moltissimi motivi per cui una donna può scegliere che il parto vaginale non fa per lei, ad esempio traumi legati ad aborti precedenti. I traumi mentali hanno lo stesso valore dei motivi fisici. Quello che noi, come Paese, non consideriamo è che è vero che ci sono i numeri e le linee guida, ma c’è anche la personalizzazione delle cure, e quindi ogni donna e ogni coppia ha una storia a sé che non può essere ignorata.
I ricordi traumatici legati al parto non sono uno scherzo, non se ne vanno, chi dice che poi il parto si dimentica dice una bugia. La violenza ostetrica non si dimentica mai. È vero che il cesareo espone a certi rischi chirurgici, ma è altrettanto vero che un parto indesiderato per via vaginale espone le donne a un rischio di trauma perinatale.
CB: Per concludere vorrei farti la domanda che molti a questo punto si staranno facendo: cosa possono fare i futuri genitori per tutelare la propria salute e migliorare la probabilità di avere un’esperienza positiva della nascita? È ragionevole demandare ai genitori questo compito di promotori del cambiamento oppure è una prerogativa degli operatori?
CR: Noi genitori siamo cresciuti con l’idea che il dottore avrebbe pensato a tutto. Ora, questa idea era vera quando c’era un’enorme sproporzione di informazioni e di cultura tra i medici e i cittadini. Adesso abbiamo una maggiore possibilità di reperire informazioni, e quindi cade un po’ l’idea di affidarsi totalmente all’équipe medica. Se si hanno davanti i 9 mesi di gravidanza, non bisogna pensare dove partorire a partire soltanto dalla 34a settimana.
Fin da subito si avranno dubbi, paure; occorre quindi dedicare uno spazio alle proprie scelte e individuare gli operatori sanitari che possano aiutare a chiarire la situazione. Dopodiché è ovvio che non si può, in nove mesi, fare un corso di ostetricia e ginecologia, quindi ci saranno sempre delle procedure mediche, magari legate a urgenze o a gravi rischi, che i genitori non riusciranno a cogliere appieno. Non è che tutti devono sapere tutto, ovviamente; ognuno fa il suo mestiere e il genitore deve occuparsi di sé stesso, del proprio corpo e soprattutto cercare interlocutori rispettosi. Chi è l’interlocutore rispettoso? Non quello che dice sempre di sì, a ogni cosa ci venga in mente, ma quello che riesce a dipanare con noi la matassa dei dubbi e delle insicurezze, offrendo a volte un consiglio, a volte un’indicazione.
Ci sono purtroppo situazioni in cui le indicazioni si riducono molto perché i problemi di salute sono tanti, ma questo non vuol dire non poter essere ascoltate. Si deve comunque accedere al miglior livello possibile di cura. Anche nel caso del parto medicalizzato o della gravidanza ad altissimo rischio i principi della respectful care restano uguali per tutti.
Medico psichiatra e psicoterapeuta cognitivo comportamentale. Si è perfezionata in psicologia clinica perinatale e in linguaggi narrativi e letteratura per l'infanzia e l'adolescenza. Ha un Master Universitario in Disturbi alimentari in età evolutiva e un Master Interuniversitario europeo in Neuroscienze dell'umore. Attualmente è dottoranda di ricerca in Neuroscienze con un progetto sulla salute mentale in epoca perinatale.
pedagogista, svolge attività privata di consulenza pedagogica nel sostegno alla genitorialità e al percorso di crescita di bambini e adolescenti. Coordina progetti di educazione e accompagnamento alla morte e all’esperienza della perdita, si occupa di famiglie adottive e lavora come formatrice per gli operatori di nidi e scuole dell’infanzia nella provincia di Messina. È stata vicedirettrice di Uppa magazine dal 2018 e dal 2022 ne è diventata direttrice.