Come vi addormentate la sera? E come si addormentano i vostri bambini? Leggete un libro e crollate sulla pagina con la luce ancora accesa sul comodino? Ascoltate la radio? Davanti al camino? Alla TV? E i bambini vanno a letto verso le nove o dopo la mezzanotte? Vi accoccolate sulla poltrona finché qualcuno, tra il dolce e l’infastidito, non vi sussurra: «Amore, andiamo a dormire che gli altri sono andati tutti via»? Molto semplicemente vi infilate nelle vostre lenzuola e prendete sonno? I vostri piccoli si addormentano nel vostro letto, ben oltre ogni umana resistenza? Forse vi addormentate raccontando una favola alla vostra piccola peste? Ecco, questo potrebbe essere un ottimo sistema. In genere funziona più per il narratore che per il marmocchio che ascolta, che classicamente, a tre quarti della storia, quando credete che abbia ceduto al sonno, vi fa un’osservazione così trasversale che è come se nella vostra stanza fosse entrato il sole di mezzogiorno, però è una cosa molto bella e rende immaginabili i mondi paralleli.
Anche in Cina, con il loro strano alfabeto, ci saranno mamme e papà che raccontano una favola di draghi e mostri, di fate e principi, e in India e in America e in Africa e chissà in quale dialetto, in quale capanna, in quale bidonville, a quale temperatura, chissà con quale vento fuori, con quale acquazzone e magari fulmini o silenzio e buio pesto.
Sgangherata e illogica, una favola si può raccontare sempre, è un fantastico esercizio creativo, una prova di umiltà, una frustata all’onnipotenza che ci assale tutti. È come leggere a voce alta. Avete mai provato a farlo in pubblico? È una verifica dei propri limiti, un monito che ci rende meno presuntuosi.
Nella deriva in cui siamo imbarcati, è facile credersi capaci di fare tutto. Il modello che abbiamo in mente ci è divenuto talmente domestico che quasi ce ne sentiamo non solo titolari, ma protagonisti e autori. Un po’ come succede nel guardare una partita di calcio alla TV. Avete presente con quanta facilità ci sostituiamo al giocatore che, sotto porta, sbaglia un goal e noi a mangiarci le mani per non essere al suo posto, ché certo non avremmo fallito quella facile occasione? Ma poi è ovvio che tralasciamo tutto il testo, la forza, la pressione dell’avversario, il ritmo dell’azione, l’emozione. Invece, messi alla prova, possiamo ascoltare la nostra vera voce, apprezzare la distanza tra noi e chi questa cosa la sa fare bene, tornare umani, cercare le nostre pause, amare i silenzi, interpretare le attese e conoscerci.
Io da un po’ di sere mi addormento così, racconto Il gatto con gli stivali a una piccola peste di due anni e mezzo e mi comincia a piacere. Per ora lei resta sveglia fino alla fine. Sarà buon segno?