Il reflusso gastroesofageo (RGE) è diventato una malattia di moda: negli ultimi anni se ne parla molto, viene spesso diagnosticata e molto spesso anche curata. Eppure, lo giuro, fino a non molti anni fa nessuno l’aveva mai sentito nominare questo RGE, o meglio, lo chiamavamo semplicemente rigurgito e davamo per scontato che fosse un evento praticamente normale. [1] Dava fastidio, è vero, si sporcavano tanti bavaglini, ma, tutto sommato, si riusciva a sopportare finché non passava con la crescita e con l’aumento di consistenza degli alimenti.
La parola reflusso infatti significa semplicemente che il contenuto dello stomaco tende a tornare indietro nell’esofago e, poiché il transito del cibo nell’apparato digerente è un percorso a senso unico, percorre la strada in direzione opposta e “vietata”.
A dire il vero però, sarebbe meglio dire che il percorso del cibo nell’apparato digerente dovrebbe essere a senso unico, se non fosse che:
Insomma, è come se il neonato fosse una bottiglia sempre piena, con un tappo che si chiude male, tenuta in posizione orizzontale: impossibile che dal collo non esca neppure una goccia. Questa la spiegazione di un fenomeno che, da quando l’ecografia viene praticata correntemente e senza rischi (come avviene ad esempio durante gli screening neonatali), può essere anche facilmente osservato sullo schermo dell’ecografo.
Il guaio è che questa dimostrazione ecografica di un fenomeno comune (il reflusso) si trasforma troppo spesso in una diagnosi: reflusso gastroesofageo. E quando c’è una diagnosi, si sa, ci vuole per forza anche una terapia. Ma soffrivano così tanto i bambini di una volta, quando questa diagnosi non veniva praticamente formulata quasi mai e meno che mai veniva fatta alcuna terapia, come oggi invece si fa spesso? Direi proprio di no. Il reflusso si affrontava con la santa pazienza, cambiando il bavaglino e aspettando che passasse.
I bambini piangono, a volte si disperano, muovono le gambe, si irrigidiscono e tutto questo viene interpretato quasi sempre come dolore: ma da quando esiste il RGE, sempre più spesso la risposta a questi sintomi è una diagnosi (il più delle volte basata impropriamente su una ecografia) e quindi una terapia con farmaci specifici.
Già, perché, guarda caso, negli ultimi anni sono stati commercializzati alcuni farmaci, relativamente costosi, che agiscono sull’acidità del contenuto dello stomaco e dell’esofago. A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca: nessuno mi toglie dalla testa che l’esplosione di diagnosi di RGE, clamorosa soprattutto negli USA, potrebbe essere un caso classico di disease mongering, o mercificazione della malattia, un’operazione di marketing finalizzata alla diffusione sul mercato di un farmaco: si inventa una malattia per poter vendere una medicina.
pediatra e giornalista, ha esercitato per quarant’anni come pediatra di famiglia nel Servizio Sanitario Nazionale e ha fondato nel 2001 il bimestrale per i genitori «Un Pediatra Per Amico», che ha diretto per 16 anni. Attualmente è un pediatra libero professionista.