Giovanni sta provando a scendere i gradini da solo, suo padre se ne accorge e, col cuore in gola, facendo un balzo in avanti, si avvicina e gli dice: «Vuoi scendere giù? È pericoloso, ti ci porto io». Quindi il genitore prende in braccio il piccolo e lo porta al piano inferiore. Poco dopo, Giovanni tenta di salire su un ostacolo che ha trovato lungo il suo cammino, ma prontamente l’adulto lo prende per mano e allontana la difficoltà… e con essa, però, anche la strada verso l’autonomia. Quando il bambino si avvicina alla scala, infatti, il compito del genitore sarebbe quello di aiutarlo a scendere, facendogli vedere come fare per non farsi male (e la stessa cosa vale in situazioni simili): si può scendere da seduti o all’indietro, con il genitore al proprio fianco che riveste il ruolo dell’“adulto di sicurezza”.
«Un’azione pedagogica efficace sui teneri bambini deve essere quella di aiutarli ad avanzare sulle vie dell’indipendenza così intesa, che consiste nell’iniziare le prime forme di attività bastando a sé stessi e a non pesare sugli altri per la propria incapacità», scrive Maria Montessori. «Aiutarli a imparare a camminare senza aiuto, a correre, a saltare e a scendere le scale, a rialzare oggetti caduti, a parlare per esprimere chiaramente i loro bisogni, a cercare con tentativi di giungere al soddisfacimento dei loro desideri, ecco l’educazione dell’indipendenza». Il concetto di autonomia, così caro alla Montessori, è esplicitato nell’espressione «Aiutami a fare da solo», nella quale «Aiutami» non significa «Sostituisciti a me» ma, piuttosto, «Ho bisogno di sapere che sei accanto a me, perché da solo non mi posso educare; l’educazione è un dialogo, ma aiutami a fare da solo, perché nessuno può apprendere al mio posto».
Quali sono i passaggi che permettono a un bambino di imparare a fare le cose? Il neurobiologo e autore di Uppa Alberto Oliverio scrive: «La struttura dei circuiti cerebrali dipende […] anche dalle esperienze che facciamo a partire dalla prima infanzia: una stimolazione accorta può indurre modifiche della funzione e della stessa struttura nervosa». Quindi lasciar fare le cose aiuta lo sviluppo delle capacità mentre impedire o anticipare lo preclude. Lo stesso autore aggiunge: «È attraverso l’osservazione e l’azione motoria che un bambino realizza una serie di apprendimenti concreti che, gradualmente, si trasformeranno in concetti astratti». Per scoprire, conoscere e imparare un bambino ha bisogno di toccare, di esplorare, di fare. E tutte queste attività passano necessariamente attraverso il movimento, che sarà di volta in volta più sicuro se il bambino avrà la possibilità di fare errori e imparare, scoprendo sé stesso e il mondo.
Facciamo un altro esempio: Giovanni prova a versarsi un bicchiere d’acqua; l’ha visto fare tantissime volte dai genitori e ora ci vuole provare. Per un adulto è semplice vedere l’epilogo di questa azione. Ecco dunque che immediatamente il genitore è pronto a correggerla, impedendo al bambino di sperimentare da solo.
Innanzitutto il piccolo, che ancora non ha finito di compiere il suo tentativo, non capisce dove sia il problema: le parole che accompagnano la correzione non servono a nulla, perché il bambino non ha completato la sua azione e non sa di cosa si stia parlando. Inoltre, l’atteggiamento dell’adulto, che nella maggior parte dei casi è di rimprovero, lo mette in condizione di pensare che ciò che stava facendo non vada rifatto né, soprattutto, ritentato. Quindi abbiamo tolto dalla mente del bambino uno stimolo che avrebbe potuto essere importante. Se questo agire educativo si ripete per ogni cosa, il messaggio che arriva al bambino è che è meglio non provare a fare nulla: ecco compromessa l’esplorazione del mondo e di conseguenza l’autonomia.
Mentre Giovanni tentava di versare l’acqua, il genitore avrebbe dovuto avvicinarsi e mostrargli l’azione dicendo: «Prendi la bottiglia con due mani, alzala piano, avvicinala al bicchiere e prova a versare. Guarda il bicchiere in modo da alzare la bottiglia prima che sia pieno». In questo modo avrebbe dato a Giovanni la possibilità di fare da solo, sapendo di poter essere aiutato nel momento del bisogno. Se poi Giovanni avesse versato l’acqua sul tavolo, il genitore avrebbe potuto rendersi utile porgendogli una spugnetta e facendogli asciugare quel piccolo errore, senza dare l’idea di un guaio irrimediabile ma solo di una cosa a cui stare più attenti la volta successiva.
La pedagogista montessoriana e autrice di Uppa Annalisa Perino, nel suo libro Qui abita un bambino, scrive: «Purtroppo i bambini a volte sbagliano modalità, posto, momento, e quella che voleva essere una buona azione si trasforma, agli occhi dell’adulto, in un disastro». Un adulto che sta educando dovrebbe predisporsi anche a insegnare anche e soprattutto a correggere gli eventuali errori senza cadere nel vortice dei rimproveri che, a loro volta, innescano la catena dell’irritabilità e di quello che viene definito impropriamente “capriccio”. In realtà il capriccio è un modo con cui il bambino comunica di non capire o di non essere compreso.
Se il genitore di Giovanni, invece di porgere la spugna per asciugare l’acqua, si fosse spazientito e avesse detto «ecco, hai combinato un disastro, ora devo pulire!», il bambino si sarebbe con ogni probabilità messo a piangere, sarebbe stato deluso e arrabbiato, invece di provare soddisfazione per aver fatto una cosa nuova e aver saputo apportare anche una correzione.
Proviamo a pensare a Giovanni all’inizio della scuola elementare, mentre durante i compiti a casa svolge le sue prime addizioni. Il piccolo comincia a scrivere con la matita il risultato, e il genitore si accorge, ancor prima che il numero sia scritto per intero, che il risultato è sbagliato. La mano del genitore cancella subito con la gomma il mezzo numero scritto, Giovanni alza la testa, la sua espressione sembra dire: «Cos’ho fatto? Non ho ancora finito di scrivere, perché cancelli?».
Se invece il genitore aspettasse la fine dell’esercizio e suggerisse a Giovanni di controllare il risultato, Giovanni scoprirebbe da solo il suo errore e lo correggerebbe: il compito del genitore che educa è di esserci, mostrare le cose, far vedere come si fanno ed eventualmente come si correggono. Nessuno nasce sapendo fare bene ogni cosa, e solo consentendo al bambino di provare – e riprovare ancora una volta – lo vedremo soddisfatto di aver imparato da solo.
pedagogista, svolge attività privata di consulenza pedagogica nel sostegno alla genitorialità e al percorso di crescita nell’educazione allo studio di bambini e adolescenti. Coordina progetti di educazione ambientale ed extrascolastica e lavora come formatrice per genitori nella provincia di Padova. Dal 2018 scrive per Uppa.