Vi è familiare questa scena? Una culla con dentro un apprendista essere umano nei suoi primi giorni di vita e intorno genitori, nonni e parenti vari. Lui/lei fa quello che può per adattarsi a quel caos di rumori, luci, stimoli interni ed esterni: la fame, la sete, qualcosa che punge, che prude o che irrita producono sensazioni sgradevoli, incomprensibili ma intensissime. Cosa fare se non agitarsi, piangere, dibattere mani e piedi in cerca di sollievo? «Guarda come si arrabbia! Tutto sua madre» commenta qualcuno malizioso. Ma finalmente arriva il soccorso: la tetta della mamma, o qualcuno che toglie quell’involucro sgradevole in cui l’hanno rinchiuso per liberare il piccolo corpo, ripulirlo, rinfrescarlo. Che benessere… «Guardalo! È proprio felice».
Questi primissimi scambi contengono già tutti gli elementi della comunicazione e della relazione fra esseri umani ancor prima, molto prima, che il linguaggio verbale compaia.
È stata definita “dialogo sociale” la reazione del piccolo a qualcosa che ha turbato lo stato di quiete del suo organismo, qualcosa che lo ha portato a movimenti, suoni ed espressioni del viso che hanno alcuni specifici effetti su chi è accanto a lui: richiamano l’attenzione e producono risposte (di consolazione, di sollievo, di condivisione e così via). Perché questo accada, però, è necessario che a quei comportamenti venga dato un senso, e che chi li osserva avverta una risonanza con qualcosa che conosce, o meglio, che riconosce: rabbia, gioia, paura, tristezza. Insomma, un’emozione.
Difficile dire se anche il piccolo prova proprio quelle emozioni quando piange, o quando sorride. O quanto quello che prova sia simile a quello che prova un adulto. Ma quel riconoscimento segna l’avvio del dialogo fra quei genitori e quel bambino. Un dialogo che, per quanto simile a tutti gli scambi fra i genitori e i bambini di ogni parte del mondo e di ogni tempo, sarà comunque diverso da famiglia a famiglia. A partire da questa specificità, ogni genitore può imparare a rendere quel dialogo più ricco e più positivo.
Rabbia, gioia, paura, tristezza: sono queste le emozioni più semplici, presenti fin dalla nascita. Più le risposte dei genitori saranno rassicuranti, accoglienti, serene, più il bambino si sentirà sicuro anche quando le emozioni lo turbano. Riconoscere una reazione di paura del bambino e cercare il modo di consolarlo, come godere della sua gioia e cercare il modo di prolungarla (tutti i genitori conoscono bene l’interminabile gioco del ridere insieme, a base di “bubusettete” o di smorfie buffe, e la gioia profonda che se ne trae), significa iniziare insieme a lui quella relazione di reciproco riconoscimento che è alla base di una buona educazione emotiva.
Ma è davvero così facile, così naturale rispondere in modo positivo alle emozioni del bambino? No, non lo è. Confrontarsi con le emozioni di un altro, anche se si tratta di un bimbo di pochi mesi (e figuriamoci più avanti) non è semplice, e neppure sempre piacevole (a tal proposito, in questo articolo parliamo della comunicazione “corpo a corpo” che si sviluppa tra madre e bambino fin dalla gravidanza) . Nel libro Intelligenza emotiva per un figlio, John Gottman fa un’affermazione su cui riflettere: «La capacità di accogliere le manifestazioni emotive dei figli in modo empatico ed efficace, di diventare cioè bravi “allenatori emotivi”, non viene naturale a tutti i genitori per il solo fatto di amare i propri figli». È importante ricordare che le emozioni dell’altro producono emozioni in noi, e le reazioni emotive spontanee sono influenzate dalle esperienze, dalle caratteristiche personali, dalle condizioni di vita, dai valori e da molto altro.
Ogni genitore risponderà in modo diverso alle manifestazioni emotive del suo bambino, e alcune di quelle manifestazioni potrebbero essere più difficili da accettare e da accogliere di altre. È importante saperlo, imparare a riconoscere le proprie reazioni spontanee e imparare a guidarle in modo consapevole.
Le emozioni del bambino diventano via via più complesse, man mano che cresce e acquisisce una sua personalità più definita. Intorno ai 2 anni, ad esempio, il bambino comincia a provare emozioni “sociali”, legate all’immagine di sé e alle reazioni che produce negli altri, e può provare vergogna, gelosia e senso di colpa, anche se ovviamente non sarà in grado di identificarle con queste parole. Più avanti, poi, le emozioni verranno collegate a “qualcosa” che le produce (paura dei temporali, gioia per una festa o per un regalo e così via). E, molto presto, il bambino diventa anche capace di mascherare le proprie emozioni, se ha imparato che quelle emozioni non sono bene accolte nell’ambiente in cui vive. È questo che una buona educazione emotiva dovrebbe evitare: per imparare a guidare le proprie emozioni il bambino deve essere certo che può permettersi di provarle.
Cristiano ha 6 anni ed è in prima elementare. Ha due genitori attenti e presenti, che gli hanno proposto fin da quando era piccolo esperienze e attività socializzanti. Nonostante questo, un bambino che potremmo definire cauto, poco portato a buttarsi nelle situazioni di gruppo, riservato e silenzioso. Dopo qualche settimana di scuola, Cristiano ha cominciato ad avere crisi di pianto, difficoltà ad addormentarsi e poi ha iniziato a chiedere di non andare a scuola. Dopo le continue richieste dei genitori finisce per parlare di Andrea, un bimbo della sua classe che anche a detta delle maestre si comporta in modo piuttosto aggressivo. Cristiano racconta che Andrea grida forte, rompe le matite degli altri bambini e minaccia di ammazzarli se protestano. Le maestre minimizzano, dicono che la situazione è sotto controllo, e che forse Cristiano a essere un po’ troppo timido e pauroso. La domanda che i genitori si fanno è: «Come possiamo fare per rendere Cristiano meno pauroso?».
In realtà questa domanda non è un buon punto di partenza. Educare le emozioni non significa individuarne alcune che andrebbero rimosse, e svilupparne altre che ci sembrano più positive. Il primo passo da fare è quello di riconoscere e accogliere l’emozione che il bambino prova, senza giudicarla. Poi, si potrà provare ad aiutare Cristiano a far fronte alla sua emozione in modo più efficace. Ma prima è indispensabile riconoscergli il diritto ad avere paura.
Questo per Luca, il papà di Cristiano, è piuttosto difficile: la sua idea di come bisogna affrontare la vita si basa su parole come coraggio, assertività, sicurezza di sé.
L’idea che Cristiano possa rimanere per sempre una persona paurosa lo preoccupa, e il suo modo di aiutare il figlio a superare la paura si basa essenzialmente su consigli («Tu non farti intimidire, se lui ti rompe la matita rompigli anche tu le sue, oppure chiama la maestra e fallo punire»), sottovalutazioni («E che sarà mai ’sto Andrea, non vedi che è una spanna più basso di te? Ti fai spaventare da un nanetto?») e prediche («Se non impari adesso che sei piccolo a non farti spaventare dai prepotenti, come farai da grande?»). Tutte modalità che, per quanto utilizzate a fin di bene, mettono il bambino di fronte a compiti impossibili: non provare l’emozione che prova («Non devi avere paura») e comportarsi in un modo che lo spaventa ancora di più («Rompigli le matite»). Insomma, essere diverso da quello che è.
Per aiutare veramente Cristiano, mamma e papà devono cercare di pensarsi e sentirsi in una situazione emotiva simile alla sua: possibile che non si siano mai sentiti spaventati da qualcuno, che non abbiano mai provato paura in situazioni in cui si sentivano sopraffatti, deboli, incapaci di reagire? È a partire da questa identificazione che diventa possibile dire al bambino qualcosa come: «Succede, sai, che qualcuno faccia cose che spaventano. Forse avrei paura anch’io se qualcuno mi urlasse contro o rompesse le mie cose». Il passo successivo, quello più concretamente educativo, è di aiutare il bambino a individuare le proprie risorse, il proprio modo di affrontare la paura non dicendogli cosa fare, ma incoraggiandolo a trovare le sue strategie. Strategie che Cristiano aveva cominciato a immaginare, ma non osava parlarne a un papà che gli consigliava eroiche strategie di attacco: «E se invece provassi a farmelo amico?».
Con una certa fatica da parte di Luca, i genitori hanno valorizzato i tentativi del loro bambino e lo hanno sostenuto negli inevitabili insuccessi di stringere amicizia con Andrea. Ora Cristiano ha «un po’ meno paura», ma quello che più importa è che è stato liberato dalla sensazione di essere inadeguato agli occhi dei genitori, e che la sua paura fosse qualcosa di sbagliato e di vergognoso.
Ci sono culture in cui praticamente tutte le emozioni sono considerate un po’ indecenti, qualcosa comunque da reprimere e da non esibire in pubblico. Nella nostra cultura mediterranea le cose vanno un po’ meglio, almeno per quanto riguarda le emozioni per così dire positive: gioia, allegria, sorpresa positiva, speranza. Difficile però che la vita ci riservi solo questo tipo di emozioni. Difficile, nella vita di una coppia di genitori, che non compaiano momenti di rabbia, di delusione, di tristezza; di ansia, di paura, di dolore.
Cosa succede quando sappiamo che i nostri figli ci stanno osservando, che percepiscono le nostre emozioni e ne sono inevitabilmente turbati? Per molti la reazione spontanea è quella di “proteggere” il bambino dal contatto con le emozioni dei grandi. Proteggerlo come? Negando, minimizzando, fornendo spiegazioni improbabili a un momento di pianto, a un’esplosione di rabbia: «Mamma e papà stanno scherzando»; «Piango perché ho perso le chiavi»; «Non sono triste, ho solo un po’ di mal di testa».
Proviamo a chiederci cosa accade nel mondo emotivo di un bambino quando utilizziamo modalità di questo genere. Dobbiamo tenere conto del fatto che, di fronte alle manifestazioni emotive dell’adulto, il bambino prova a sua volta delle emozioni: emozioni di riconoscimento (potremmo dire che “sente” la rabbia, il dolore, la tristezza); emozioni di risposta: paura della rabbia degli adulti, senso di colpa legato al timore di essere causa del dolore o della delusione che percepisce; e, anche, emozioni di riparazione: tenerezza, desiderio di consolare, di aiutare. Questo dialogo emotivo, però, viene interrotto da una brusca smentita: «Le emozioni che hai creduto di vedere in noi non sono vere. Hai capito male. Quindi anche quello che provi tu non va bene: non devi sentirti spaventato, o triste, o preoccupato, perché niente di quello che credi di provare è vero, o giusto». Se pensiamo che quello che crea legami fra gli esseri umani è proprio la capacità di dare senso alle emozioni degli altri e di rispondere a esse in modo adeguato, e che questa capacità è legata anche a meccanismi neurali che si attivano in risposta alle emozioni che osserviamo negli altri, ci rendiamo conto di quanto possa essere perturbante il messaggio «Non devi vedere l’emozione che credi di vedere; non devi provare l’emozione che stai provando». La sensazione che ne deriva è di disorientamento e confusione, di perdita di fiducia nelle proprie capacità di capire sé stessi e gli altri.
Se questa modalità diventasse prevalente, se fosse cioè l’unico modo che i genitori utilizzano per comunicare in tema di emozioni, i danni sarebbero sicuramente gravi. Fortunatamente, però, è molto raro che ciò accada: in genere queste modalità di negazione compaiono in situazioni particolarmente intense, o quando gli adulti stessi sono spaventati dalle emozioni che provano e non sanno bene come gestirle.
Per essere buoni “allenatori emotivi” per i propri figli, è necessario diventarlo innanzitutto per noi stessi. A partire dalle due regole base di quella che viene definita “intelligenza emotiva”:
Consapevolezza. Non ci sono emozioni buone ed emozioni cattive: quello che importa è essere capaci di riconoscerle quando le proviamo. Un genitore che sa dire: «Sono arrabbiato con la mamma, ma adesso io e lei cercheremo un modo per metterci d’accordo e smettere di essere arrabbiati» è un buon allenatore emotivo.
Autocontrollo. Riconoscere le proprie emozioni non significa perdere il controllo: è importante allenare sé stessi e i figli a mantenere il controllo delle proprie reazioni anche in situazioni emotivamente intense, legittimando l’emozione ma mantenendo i comportamenti entro i limiti del rispetto dell’altro e della non distruttività.
Quello che il bambino deve sperimentare è che i suoi genitori possiedono queste due capacità, e che anche lui può imparare a far fronte alle sue emozioni senza reprimerle e senza sentirsene travolto.
Per essere, come dice Gottman, buoni ‘‘allenatori emotivi’’ per i propri figli, bisogna che:
psicologa, psicoterapeuta della famiglia e docente di counselling alla Scuola di specializzazione in Pediatria dell’Università di Torino, ha elaborato il metodo del counselling sistemico narrativo, che utilizza nella formazione dei professionisti e negli interventi per lo sviluppo delle competenze genitoriali. Ha fondato la scuola di comunicazione e counselling CHANGE di Torino.