Alessio, 8 anni; Lorenzo, 5. È la prima visita, il primo incontro. Conosco la sorellina, Giulia, lattante, che la mamma mi ha già portato alcune volte, figlia di un nuovo papà. «Buongiorno Alessio, dove sei?», mentre gli stringo la mano il suo sguardo sfugge da ogni parte fino a che, dopo tanti interminabili momenti, rincorrendo il suo volto con il mio, i nostri sguardi si incrociano. «Eccoti qua, ora ti vedo!». Nessun sorriso, solo imbarazzo e il cappellino con visiera rigorosamente calato sugli occhi. «E tu, Lorenzo?», qui la stretta di mano è accompagnata da grandi sorrisi e da una gran voglia di esplorare dottore e stanza.
Non raccolgo un’anamnesi particolareggiata (ho già parlato con la mamma in occasione delle prime visite della piccola Giulia) e spiego ai bambini che prenderò le misure, farò una visita di controllo e li inviterò a spogliarsi nudi per questo. «Cosaaa?!», esclamano stupiti i ragazzi in coro. Quindi chiedo ad Alessio di raccontarmi le cose più importanti della sua vita. Braccia conserte, occhi al pavimento, visiera che scherma completamente il volto e silenzio profondo. «Ale, io non so nulla di te, ho proprio bisogno che tu mi racconti qualcosa di importante di te per conoscerti». «Sono bravo a scuola», «… poi devo proteggere Lorenzo e Giulia, la mia sorellina, perché sono più piccoli». Gli faccio i miei complimenti e dopo qualche domanda sulle sue abitudini gli chiedo di spogliarsi, «Anche le mutande?», «Sì, se non sono incollate», ed eseguo una visita che soddisfa entrambi. Con Lorenzo si parte, invece, con delle grandi risate. Non so come, ma alle sue risposte io faccio delle gran battute e scoppiamo a ridere tutti e due. Non riusciamo a trattenerci e le lunghe risate contagiano anche mamma e Alessio.
Mentre Lorenzo si rimette i vestiti e fruga con il fratello tra i mobili e i libri dell’ambulatorio e io finisco di compilare la cartella clinica, la mamma percepisce che la visita ormai è conclusa. Allora, sottovoce: «Dottore, non gli chiede del mio nuovo compagno?» … Ah, già. Di qualcosa mi ricordo, avevamo parlato durante una delle prime visite a Giulia; i ragazzi non vanno d’accordo con il nuovo compagno di mamma. Deve essere così, ora la memoria si risveglia, sì, ci deve essere un po’ di tensione tra il papà di Giulia e i due bambini. «Signora, è la prima visita, ho lasciato a loro la parola e li ho invitati a raccontarmi le loro cose più importanti. Non vorrei fare un interrogatorio, oggi, visto che loro non me ne hanno parlato. Però, se è una questione primaria per lei, chiediamo loro di sedersi e di ascoltare la mamma perché ha qualcosa di importante da dire».
Chiamo i ragazzi, Lorenzo e Alessio sono ubbidienti e si dividono la sedia. «Ecco, vede dottore, i ragazzi non vanno molto d’accordo con Sebastiano.» «Il suo nuovo compagno?» «Sì.» «Perché ragazzi? Cosa succede, cos’è che non va?» Alessio si trasforma, è rigido, teso come una corda di violino: «Lui non è mio padre, non mi comanda. Non mi dà gli ordini», la voce si alza di tono. «Cosa succede? Perché dà gli ordini?» «Perché facciamo confusione. Lui ci tira le orecchie.» «Come, le orecchie?» «Sì, ci tira le orecchie se noi non gli ubbidiamo. Non vuole che disturbiamo la bambina piccola. Ma lui non è nostro padre.» Interviene la mamma: «Ma non è vero, lo avrà fatto forse una volta…» «Taci tu, che ci schiaffeggi!» Alessio è lapidario, il volto furente, si alza in piedi e si avvicina alla madre: «Non ci devi schiaffeggiare sulle guance, ma darci le patacche nel culo.» Arrossita, imbarazzata, la mamma risponde alle mie richieste di chiarimenti: «Qualche volta scappa la pazienza… dopo tante volte che si dice la stessa cosa… allora arriva uno schiaffo.»
Perché succede ancora oggi tutto questo? E perché non ho chiesto alla madre delle punizioni corporali? Perché continuo a dare questo tipo di fiducia ai genitori? Domanda secca di fronte ai figli: «Lei, signora, picchia i bambini? Uno schiaffo, una patacca, una tirata d’orecchie? Uno strattone? Un urlo?» Stupido che sono. Altro che chiedere se prendono il latte a colazione! No, no, no: non si devono fare queste inutili domande. «Sculaccia il bambino con lo scopo di educarlo?», oppure: «Quante volte picchia i suoi figli in una settimana?» Ecco, queste sono le domande. Ma quale falso pudore continuo a indossare. Sono proprio deluso di me. Questa volta, per fortuna è andata bene. Qualcosa è stato svelato, merito di Alessio.
Spiego ai ragazzi e alla mamma che non si può e non si deve mai picchiare un bambino. Se le cose non funzionano in casa ci si deve fermare un momento e discuterne tutti insieme; poi i genitori decideranno le regole dopo aver ascoltato i figli. Se la pazienza di mamma o papà scappa, sculacciate e schiaffi non sono giustificati in alcun modo: i genitori devono appartarsi fino a che non recuperano un po’ di tranquillità e non devono mai mancare di spiegare il loro stato d’animo ai figli. Ma non riesco a non essere direttivo con la mamma: «Mai più! Se vuole recuperare una relazione con i ragazzi, il suo compagno può solo parlare loro offrendo il massimo rispetto, così come dovrà fare lei, sempre, senza cedere all’impulsività di una pazienza che si è persa.» Saluti finali. In piedi sulla porta ormai aperta sulla sala d’aspetto, gli altri genitori in attesa possono ora ascoltare, stringo la mano alla mamma e la fermo sulla soglia: «Complimenti signora, ha dei bravi ragazzi. Sono soddisfatto di loro.» «Avanti il prossimo.»
Una sculacciata, uno schiaffo, uno strattone, un pizzicotto o una tirata di orecchie sono atti che spesso i genitori utilizzano con l’intento di educare il proprio figlio. Un genitore dà una punizione corporale per far interrompere un’azione non voluta oppure con l’obiettivo di insegnare un buon comportamento. Ma il bambino dopo poco riprenderà a fare quell’azione per cui era stato punito (è scientificamente testato e anche ogni genitore può confermarlo) e, soprattutto, questo bambino imparerà non un comportamento buono, ma impulsivo; così come è stata dettata dall’impulsività – «mi è scappata la pazienza!» – la sculacciata. In sostanza: utilizzare le sculacciate per insegnare l’educazione non serve in alcun modo ai nostri intenti educativi.
Ma c’è di più. Sono ormai centinaia gli studi scientifici che associano l’educazione tramite le sculacciate, e più in generale tutte le punizioni corporali, a un esito negativo nell’età adulta. Anche un recentissimo e importante studio pubblicato sulla più importante rivista scientifica pediatrica internazionale, Pediatrics, ha confermato che l’utilizzo delle punizioni corporali come stile educativo porta a una maggiore probabilità di presentare in età adulta ansia, depressione, disturbi dell’umore e della stima, abuso di alcol e di droghe, disturbi della personalità. Potremmo contestare questo risultato pensando a famiglie di basso livello socio-economico, oppure con problemi o famiglie maltrattanti. Assolutamente no: erano semplicemente genitori che credevano nella bontà educativa della sculacciata.
comasco di nascita, ha studiato a Parma, dove si laurea in Medicina e si specializza in Pediatria, e successivamente in Neonatologia e Patologia neonatale. È autore di oltre 70 pubblicazioni scientifiche italiane e internazionali peer-reviewed, e collabora con Uppa da diversi anni con articoli di divulgazione pediatrica.