Nei testi antichi della medicina cinese troviamo due termini specifici che descrivono l’utero nella sua funzione riproduttiva: “viscere straordinario” e “palazzo del bambino”.
Anche la medicina occidentale usa un termine suggestivo che rimanda al concetto di “nido” per descrivere l’impianto dell’embrione nella mucosa dell’utero: “annidamento”.
La trasformazione alla quale l’organo va incontro richiama parole formidabili, immagini molto evocative che sottolineano la sua straordinaria capacità di adattarsi per accogliere e dare alla luce la vita.
Data di inizio dell'ultimo ciclo mestruale
L’utero è un organo muscolare che ha la forma di una pera; la sua parte sporgente nella vagina (detta “collo” o “cervice”) dovrà aprirsi fino a 10 cm per permettere al bambino di nascere.
È un organo piccolo, pesa 50 g ed è lungo 6-7 cm nella donna adulta, ma raggiunge i 1500 g e supera i 30 cm di lunghezza al termine della gravidanza.
La sua cavità, solitamente schiacciata, aumenta fino a mille volte il suo volume, diventando capace di accogliere un feto che può pesare anche più di 4 kg, oltre ad almeno 500 g di placenta e 1 l di liquido amniotico.
Questa trasformazione avviene perché le fibre muscolari di cui è costituito si allungano, si moltiplicano e si ammorbidiscono sotto la spinta ormonale della placenta.
Nel primo trimestre della gravidanza l’utero accoglie l’embrione e prepara la formazione della placenta. L’annidamento dell’uovo fecondato avviene proprio perché quest’ultimo riesce a “scavare” un nido che lo accoglie nella soffice mucosa uterina materna, e da qui inizia a dilatare la cavità dell’organo. Lo scopo di tutta l’operazione è raggiungere la nutrizione e l’ossigenazione dell’embrione attraverso il sangue materno: il sangue fetale e quello materno devono riuscire a scambiarsi le sostanze senza però mescolarsi, e quindi l’embrione procede fino al massimo consentito, un punto oltre il quale normalmente non può andare. In questo modo la corrente sanguigna materna e quella fetale sono vicinissime, divise solo da una barriera che serve a proteggere l’embrione da reazioni di rigetto, possibili perché l’organismo materno si trova a dover includere tessuti estranei.
L’utero è posizionato profondamente nel bacino, appoggiato sopra la vescica, e lì rimane fino a quando non si espande abbastanza da sollevarsi e diventare un organo prima palpabile dall’esterno dell’addome, poi sempre più visibile e voluminoso: la pancia!
Ci sono donne con una conformazione anatomica tale per cui “la pancia” si vede molto presto, mentre altre “la nascondono”. Così la mamma diventa suo malgrado oggetto di infondati e ansiogeni pronostici sul peso del bambino («è grande»; «è piccola»), o sulla data del parto («è alta»; «è bassa»).
Ma la pancia non è l’utero! È, per così dire, il risultato dell’aggiustamento dell’organo allo spazio disponibile, sommato al grasso presente in misura diversa nelle persone.
Palpando l’utero – e da una determinata fase in poi misurandone la lunghezza con un semplice metro da sarta – un’ostetrica esperta è in grado di stabilire con una certa approssimazione l’epoca della gravidanza, di seguire l’accrescimento del feto, di avere indizi sulla quantità di liquido amniotico e sulla posizione del bambino.
Le fibre muscolari che costituiscono lo spessore dell’utero sono disposte in due strati: quelle interne decorrono nel senso della sua lunghezza, e quelle esterne sono disposte in modo circolare. Sono responsabili della capacità dell’utero di contrarsi, entro certi limiti del tutto normale e addirittura benefica in gravidanza: la contrazione infatti vivacizza la circolazione del sangue nella placenta, massaggia il bambino, allena l’utero al lavoro del parto naturale. Raramente, e solo se modificano in modo sensibile il collo dell’utero, le contrazioni rappresentano la temuta “minaccia di parto prematuro”, spettro per il quale, in passato molto più che ora, si sono inutilmente tenute generazioni di donne a riposo assoluto.
Si parla invece di “distocia dinamica” quando si ha un’alterazione della capacità dell’utero di contrarsi (per approfondire l’argomento vi consigliamo la lettura di Parto distocico: come superare le difficoltà).
Nel corso dei mesi il feto si è allungato e, arrivati a un certo punto, il bambino deve nascere, ne va della sua sopravvivenza; così, forse a malincuore, abbandona il suo nido caldo e ovattato, e la sua vita facile e felice in cui non deve guadagnarsi nulla, perché si nutre e respira attraverso la mamma.
In seguito a un segnale chimico proveniente probabilmente dal polmone del feto, i tessuti uterini diventano molto sensibili ai due ormoni responsabili delle contrazioni: la prostaglandina, che ammorbidisce il collo dell’utero, e l’ossitocina, che determina l’attività contrattile vera e propria. In seguito alla contrazione le fibre muscolari si accorciano, il feto viene spinto verso il basso e il collo dell’utero viene stirato lateralmente. Il risultato della somma di questi meccanismi è la lenta, graduale apertura del collo dell’utero.
Quando le ostetriche valutano l’attività contrattile palpando l’utero con la mano aperta, e si congratulano con la mamma per le sue “belle, valide contrazioni”, qualche volta non riscuotono la sua approvazione incondizionata… forse perché lei userebbe altri aggettivi per descriverle!
Ma le ostetriche sanno che una “bella contrazione” è la migliore garanzia per un parto senza complicazioni. E, in fondo, tanta parte del loro lavoro è orientata a favorire, a mantenere, a fortificare questa grandiosa competenza dell’organo: in occasione del parto, mostrando una straordinaria resistenza alla fatica, l’utero continua a contrarsi ritmicamente per ore, fino alla fatidica contrazione con la quale esce la testa, e a quella decisiva, in genere la successiva, con la quale escono le spalle.
Anche dopo la nascita del bambino l’utero continua a contrarsi: deve farlo per garantire l’espulsione della placenta, e successivamente per proteggere la madre dal rischio di emorragia.
Da grande quale era, subito dopo il parto l’utero torna a dimensioni molto minori, diventando un globo duro che meccanicamente stringe i vasi sanguigni che nutrivano la placenta, impedendo il sanguinamento.
Questa funzione specifica, di importanza vitale, viene oggi sostenuta attraverso la somministrazione di ossitocina sintetica (si pratica un’iniezione subito dopo la nascita del bambino), e questo è l’unico farmaco raccomandato nel parto, per ogni donna, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
Quindi ben venga l’ossitocina per tutte dopo il parto, ma non dimentichiamoci che l’attività contrattile in questa fase è massimizzata dal contatto pelle a pelle di mamma e neonato e dall’attacco precoce e prolungato al seno, e che anche questa pratica è raccomandata dalla stessa OMS.
ostetrica, ha avuto una lunga esperienza lavorativa nel servizio pubblico, sia sul campo sia come ostetrica dirigente. In questa veste ha aperto il Centro nascita “Margherita”, struttura dedicata al parto naturale dell’Azienda ospedaliero-universitaria Careggi di Firenze, e lo ha diretto dal 2007 al 2014. È autrice di numerose pubblicazioni su riviste di settore, e del libro “Partorirai con amore”. È in pensione dal 2017.