Quand’è che nel corso della vita si comincia a reagire alla musica? In altre parole, la musica risponde a fattori innati o è un fatto culturale?
Le ricerche sul comportamento dei bambini piccoli e gli studi sulle ninne nanne indicano che sin dalla nascita esiste una predisposizione musicale. In genere, il repertorio materno di canti o ninne nanne è limitato dal punto di vista quantitativo e prevede una forte espressività e ritualizzazione: probabilmente è per questo che dalle prime settimane di vita i bambini preferiscono una canzone eseguita in “stile materno” (anche se cantata da un’altra mamma ad altri bambini) piuttosto che interpretazioni non in “stile ninna nanna” dello stesso canto. I piccoli, inoltre, sono più attratti dalle situazioni in cui possono vedere e ascoltare chi canta, come indica la loro maggiore attenzione.
La musica, però, non si limita a far “risuonare” il cervello, ma può anche contribuire a svilupparne la struttura e a modificarne il funzionamento nel corso dell’infanzia. In uno studio effettuato al Max-Planck Institute di Lipsia sono stati paragonati i cervelli di due gruppi di bambini tra i 9 e gli 11 anni, il primo dei quali aveva praticato la musica per 3-4 anni, mentre il secondo non aveva avuto alcuna esperienza musicale attiva.
Ebbene, attraverso complesse misurazioni dello spessore e dell’estensione della sostanza grigia della corteccia cerebrale (la parte più esterna del cervello), è stato appurato che nei bambini che avevano fatto pratica musicale la sostanza grigia, che contiene i neuroni, era decisamente più voluminosa. Questo potenziamento della materia grigia non si riflette soltanto sull’abilità musicale ma anche su altre attività cognitive, migliorando le prestazioni dei bambini in funzioni come l’intelligenza linguistica, la ricchezza del vocabolario, le capacità aritmetico-matematiche.
In sostanza la musica coinvolge l’intero cervello dal punto di vista emotivo e cognitivo.
È noto da tempo che l’ascolto di un brano musicale, si tratti di musica classica o di una semplice canzonetta, suscita emozioni che attivano in prevalenza l’emisfero destro. Ciò non stupisce, perché questo emisfero è coinvolto anche nell’intonazione del linguaggio ed è responsabile dell’enfasi emotiva, delle pause, delle sottolineature che impartiamo al parlato. La situazione è invece più complessa se consideriamo una persona – un bambino o un adulto – in grado di leggere la musica, comprenderne la struttura, comporla: in questo caso entra in funzione anche l’emisfero sinistro, in cui sono localizzate le aree del linguaggio da cui dipendono, appunto, la comprensione e composizione di un testo musicale. La semplice lettura di quest’ultimo attiva i centri motori del cervello responsabili di quei movimenti delle mani necessari all’esecuzione di un brano da parte di un pianista o di un violinista. Insomma, in chi conosce o compone la musica vengono attivati entrambi gli emisferi, mentre nei “profani” è soltanto l’emisfero destro a essere interessato.
I risultati di studi recenti basati sull’uso della risonanza magnetica funzionale (che valuta cioè la funzione di un organo) hanno indicato che quando ascoltiamo la musica vengono “trascinate” anche le aree motorie del cervello, ovvero quelle regioni della corteccia frontale in cui sono localizzati i neuroni che impartiscono i comandi motori ai muscoli. Nel corso dell’ascolto musicale questi neuroni si attivano e sembrano dar luogo a movimenti preparatori, come se dovessimo danzare. D’altronde, se ci pensiamo bene, quando ascoltiamo una musica che ci trascina siamo spesso spinti a muoverci e a seguire il ritmo col corpo, come avviene puntualmente alla folla che assiste a un concerto rock.
In sostanza, la musica ha un effetto globale sul cervello e nel corso dell’infanzia può modificare la cosiddetta “riserva cognitiva”, migliorando così la capacità di contrastare eventuali deficit cognitivi durante la terza età. La riserva cognitiva può essere paragonata a una stanzetta che, con il passare degli anni, tende a restringersi: se però la stanzetta è inizialmente più ampia, come quella dei bambini che suonano, si parte da un capitale cognitivo maggiore.
La pratica musicale in età infantilegiovanile è quindi una valida strategia per potenziare le capacità cerebrali. Uno studio svolto presso l’Università del Kansas ha infatti confermato che le capacità cognitive di chi ha praticato precocemente la musica si ripercuotono positivamente sulla terza età, il che è molto importante se si considera che la vita media si sta progressivamente allungando e che le malattie degenerative del sistema nervoso sono in aumento. Insomma, stimolare il cervello precocemente ha conseguenze positive, e questo perché ci sono dei periodi cruciali della plasticità cerebrale – in cui si creano nuove connessioni tra le cellule, modificando le funzioni e la struttura del cervello stesso – che hanno un maggiore impatto sullo sviluppo del sistema nervoso.
Dunque, tanto prima si fa pratica musicale, tanto meglio è per il cervello: suonare uno strumento coinvolge numerose funzioni cerebrali, da quelle linguistiche a quelle sensoriali e motorie, oltre a potenziare funzioni come attenzione e memoria. Più in generale, questi e altri dati indicano che la stimolazione cerebrale nell’infanzia contribuisce a rendere il cervello plastico: apprendere una seconda lingua, suonare uno strumento, sviluppare la mente attraverso strategie diverse non rappresenta soltanto un vantaggio concreto nell’immediato, ma un capitale che tornerà utile nella vecchiaia.
professore emerito di Psicobiologia presso l’Università Sapienza di Roma, ha lavorato in numerosi istituti di ricerca internazionali. Dal 1976 al 2002 ha diretto l'Istituto di psicobiologia e psicofarmacologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche. È autore di oltre 200 pubblicazioni scientifiche, di saggi professionali, didattici e di divulgazione.