Eccolo, è nato! Lo hai immaginato per mesi e adesso lo stringi tra le braccia. Le giornate e le nottate non sono più le stesse, tutto cambia e i dubbi arrivano presto. In poco tempo i neogenitori sono catapultati in un mondo fatto di gioie, ma anche di consigli non richiesti e di pregiudizi legati alle scelte di accudimento dei piccoli. Per esempio, nella nostra cultura si tende a pensare che i bambini “bravi e indipendenti” siano quelli che si staccano il prima possibile dal seno e dalle braccia della loro mamma, e che già a pochi mesi di vita imparano ad addormentarsi da soli per dormire tutta la notte filata. In realtà, se andiamo a consultare gli studi esistenti sulla fisiologia dei primi mesi di vita potremo facilmente notare come i bisogni irrinunciabili dei bambini siano legati alla ricerca del contatto fisico con chi si prende cura di loro, notte e giorno. Si tratta delle cure “prossimali”, ovvero di quelle che prevedono la prossimità, cioè la vicinanza tra adulti e bambini.
Nel nostro paese le norme culturali e quelle biologiche non sempre coincidono e i pregiudizi legati all’accudimento dei neonati sono tanti. Quando nasce un bambino molti genitori si sentono raccomandare di non viziarlo e i più comuni comportamenti a cui si fa riferimento sono per esempio: tenerlo troppo in braccio, dormire vicino a lui, correre al minimo segnale di richiamo del bimbo, portarlo in fascia oltre che nel passeggino, allattarlo a richiesta, allattare oltre i primi mesi o addirittura anni (si pensi al termine “svezzamento” che letteralmente significa togliere il vezzo, cioè il vizio). C’è anche chi suggerisce di farlo piangere un po’ così tirerà fuori le sue risorse, o di utilizzare metodi per farlo dormire da solo come un adulto. Questi metodi sono privi di fondamento scientifico e potenzialmente pericolosi.
Pertanto, dove sta il reale rischio di tali comportamenti? L’esercito di consiglieri che inevitabilmente si materializza intorno ai neogenitori, fornisce queste indicazioni in nome della buona educazione, della presunta conquista di autonomia del bambino attraverso la frustrazione e del diritto alla libertà degli adulti, altrimenti reputati comunemente come schiavi di un piccolo tiranno che disturba e farà fare brutte figure. Il fatto è che questi consigli risentono di pregiudizi culturali che non trovano alcun riscontro nella fisiologia dell’essere umano.
Di mamma ce n’è una sola, sì, ma si può anche riformulare questa affermazione: tante mamme si sentono “sole” perché quel profondo rapporto che inizia con la gravidanza, che culmina nel parto, e che poi continua dopo la nascita della propria creatura, deve fare i conti con le norme culturali a cui appartengono. Le mamme che preferiscono andare controcorrente si sentono spesso “sbagliate”, giudicate dall’esterno per le loro scelte. Infatti, nella cultura occidentale viene valorizzato il distacco precoce fra grandi e piccini considerando sbagliati coloro che “cedono” al contatto fisico protratto oltre i primi mesi. Sfugge che ci sono i bambini “normali”, nel senso di norma biologica, ovvero della normalità di tutti i piccoli del mondo, indipendentemente dal colore della loro pelle, dalla loro nazionalità o dalla cultura del paese dove sono nati. Gli universali culturali, infatti, sono quei comportamenti umani presenti in ogni cultura del mondo e il bisogno di contatto dei bambini rientra fra questi.
Quando i nostri piccoli si sentono in pericolo e prevale in loro il sistema biologico di allerta, ovvero il bisogno di sicurezza, contatto e protezione, hanno necessità urgente che qualcuno ristabilisca la normalità prendendosi cura di loro. Anche sul pianto dei bambini c’è da riflettere poiché per loro questa è sempre un’ultima scelta e, pertanto, da tenere in opportuna considerazione ogni volta che si presenterà. Inoltre, il loro sonno non è uguale a quello degli adulti e i risvegli sono fisiologici almeno fino a tre anni di vita. I bisogni dei bambini, quindi, sono sempre gli stessi, ovunque: bisogno di contatto fisico, di essere accudito, di essere nutrito anche affettivamente, di fidarsi delle proprie sensazioni e della capacità di comunicarle ricevendo adeguata risposta.
Nella nostra cultura si sottovaluta la possibilità che il bimbo sia competente tanto nel sentire che nel comunicare i propri bisogni. Sembra che i bambini siano “tabule rase” su cui i genitori devono scrivere regole e principi educativi provenienti dall’esterno.
Non è corretto dire che i bambini cresciuti rispettando il loro bisogno di contatto non abbiano regole o che siano per questo viziati e maleducati. Per crescere, regole e limiti sono importanti quanto gli abbracci. Dare valore al contatto e all’educazione affettiva significa dare un nome ai sentimenti e a tutte le emozioni di grandi e piccini con pari dignità e rispetto, anche se, ovviamente, con ruoli diversi.
Molti genitori si trovano in difficoltà nel decidere cosa fare coi propri piccoli, perché ricevono consigli e indicazioni discordanti fra loro. Infatti, anche i professionisti della salute non sempre concordano sulle modalità di accudimento da consigliare ai genitori e questa pluralità di suggerimenti provoca la frequente ricerca di informazioni su internet. E sappiamo bene come in rete si possa trovare di tutto e come questo sia potenzialmente fuorviante e non privo di rischi.
Molti genitori aderiscono a modelli di accudimento considerandoli una sorta di “pacchetto di cure” da adottare con l’aspettativa di ottenere risultati secondo un rapporto di causa ed effetto. Per esempio: se allatterò mio figlio, dormirò vicino a lui e lo porterò in fascia, otterrò certamente un bambino sicuro. Credo che occorra precisare con forza che così come non esistono metodi validi per tutti sul distacco, non si può considerare l’accudimento basato sul contatto come un modello a sé stante: non esiste il manuale delle istruzioni per i nostri cuccioli d’uomo e credo che sia un bene, perché la soluzione si può trovare soltanto nella relazione che instauriamo con loro, senza farci condizionare dai pregiudizi culturali; non può esistere una famiglia uguale a un’altra, e preservare l’unicità delle relazioni e degli individui porta a scelte plurime e differenti; non si tratta quindi di aderire a ideologie pensando che siano le migliori, ma di fare i conti con i propri vissuti di genitori e con il nostro essere stati figli, con le proprie aspettative e risorse a livello individuale, di coppia e della comunità a cui apparteniamo.
Fino a qualche decennio fa l’educazione affettiva era considerata come qualcosa di superfluo, ma oggi per fortuna assistiamo a una rivoluzione degli affetti che tiene conto della fisiologia e della norma biologica degli esseri umani. Molte mamme, per esempio, sono preoccupate che allevare i bambini a stretto contatto voglia dire trovarsi in difficoltà al momento del rientro al lavoro. In realtà, i bambini sono competenti anche nel riconoscere la diversità delle persone e delle situazioni in cui si troveranno durante l’assenza dei genitori, e nella maggioranza dei casi si adatteranno alle novità, reclamando la mamma al suo rientro come è normale che sia. Non serve neanche rinnegare i tempi passati in cui i nostri genitori hanno fatto quello che ritenevano fosse meglio per noi, anche se di fatto i suggerimenti erano molti diversi da quelli che vengono dati oggi. L’incontro fra generazioni diverse, ovvero fra nonni, genitori e nipoti, porta spesso a conflitti anche intensi che mettono a dura prova i rapporti con le famiglie di origine. Infatti, molti nonni pensano che i genitori di oggi stiano troppo a contatto coi loro bambini; forse potrà essere utile ricordare che anche per loro potrebbe essere stato difficile seguire i consigli del momento e che adesso sia quasi impossibile accettare un esempio diverso, perché significherebbe rimettere in discussione scelte passate. Con pazienza e fiducia in sé stessi, mettendo confini chiari e magari chiedendo conferme al pediatra portandosi dietro anche i nonni, i genitori potranno cercare di costruire una libertà reciproca che farà bene ai bambini e alle famiglie.
Occorre anche fare i conti col fatto che in quegli anni la pubblicità e il boom economico hanno messo in discussione i valori affettivi che stanno alla base di un accudimento basato sul contatto. I nonni di oggi risentono di un periodo storico in cui non si allattava più di tre mesi perché si pensava che il latte diventasse acqua e possono pertanto stentare a credere che la scienza abbia fatto passi da gigante come effettivamente è avvenuto. Per questo penso sia necessario rassicurare nonni, papà e mamme che si potrebbero sentire soli e sbagliati solo perché non aderiscono alle norme culturali. Il distacco e l’indipendenza nascono dal contatto, dalla sicurezza di essere accolti e ascoltati nel momento del bisogno, e dalla fiducia in chi si prende cura di noi, non il contrario. Finché le mamme saranno giudicate per le loro scelte soltanto per ragioni ideologiche e non perché valorizzano l’affettività, nella nostra società non coglieremo la grande occasione che ogni bambino nato porta con sé: quella di dare valore a un’educazione degli affetti che accetti il contatto come diritto e normalità biologica dell’essere umano.